In questa pagina vogliamo riportare quanto lasciato da nostro padre nel ricordo della sua adolescenza.
E' una storia di "un altro secolo" che riportata ai giorni nostri ci rende impreparati ad immaginarla realmente accaduta.
E' una storia di "un altro secolo" che riportata ai giorni nostri ci rende impreparati ad immaginarla realmente accaduta.
Ricordi
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Quando il presente ravvisa nel futuro solo la fine, allora si rivolge al passato che gli ricorda il principio,
il principio della fine
che da sempre ( ? ) si rincorrono nell'Universo.
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Tutto é presunzione, vanità, illusione !
Omnia vana, vanitas-vanitatis ! ( Salomone )
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Una cosa so, so di non sabere nulla !
Unum solum scio, nihil scire ! ( Socrate )
Quando il presente ravvisa nel futuro solo la fine, allora si rivolge al passato che gli ricorda il principio,
il principio della fine
che da sempre ( ? ) si rincorrono nell'Universo.
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Tutto é presunzione, vanità, illusione !
Omnia vana, vanitas-vanitatis ! ( Salomone )
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Una cosa so, so di non sabere nulla !
Unum solum scio, nihil scire ! ( Socrate )
1987
Prima che tutti i miei ricordi si dissolvano nella nebbia che sempre più s'addensa sul viale del tramonto, quale da tempo m'incammino verso l'ultima meta, voglio fissarne alcuni che, sia pure dai contorni di già più o meno sfumati, sono ancora vivi nella mia mente.
Il più lontano nel tempo mi porta a Ronchi dove zio Francesco era capostazione. Francesco Zottich era marito di zia Ida, sorella di papà. Ricordo i suoi baffi biondi alla Guglielmo e la sua faccia che inspirava sempre tanta simpatia. S'occupava di me appena poteva.
Anche zia Ida si dava tanto da fare con me.
Non avevano figli ed io allora avevo due anni e mezzo circa.
Di nonna Carlotta, che viveva con loro, mi ricordo poco. Lei parlava soltanto il dialetto triestino e non conosceva il tedesco che invece si parlava a casa mia, essendo mamma tedesca.
Zio Francesco e zia Ida invece lo parlavano correntemente. Forse per questo l'immagine della nonna a Ronchi passava per me in seconda linea.
Ronchi nel 1911 era un piccolo paese. Ne ricordo solo la stazione che ora s'è notevolmente ingrandita, tanto che come edificio non mi dice più niente. Ricordo le rotaie del treno al di là delle quali c'era un prato sul quale la sera un contadino portava il suo cavallo a pascolare. Oltre al prato c'era pure un campo di granoturco; ricordo l'ippocastano che era a destra della stazione, guardando le rotaie e che ora non c’è più e ricordo soprattutto la vigna, ancora oggi esistente, che allora mi sembrava tanto grande mentre non é che un fazzoletto di terreno recintato a mò di giardino.
Vivo il ricordo del papagallo parlante. Era vecchio e piuttosto male in arnese. Di quanto dicesse mi ricordo però solo il " poveretto Carletto - poveretto Carletto" che ripeteva a mitraglia ogni volta che mi sentiva piangere.
Zia Ida mi portava spesso a Grado che allora era ancora un'isola; sulla spiaggia, che ricordo molto vagamente era dato di raccogliere tanti piccoli granchi. Un giorno di ritorno dalla spiaggia, sul treno che da Belvedere ci riportava a Ronchi, uno di questi simpatici animaletti che avevo raccolto nel mio secchiello e che zia Ida aveva sistemato nella rete portabagagli dello scompartimento, cadde sulla testa del passeggiero che mi sedeva accanto. Questi comprensibilmente contrariato, prese il povero granchio e senza tanti complimenti, lo scraventò fuori dal finestrino. Fù per me una vera tragedia. Il dispiacere, la delusione, l'indignazione e la rabbia esplosero in un pianto che indusse persino lo stesso attentatore a cercare di consolarmi.
E' questo il ricordo più vivo che ho della mia prima villeggiatura.
Un altro dispiacere lo provai, sempre a Ronchi, quando mi sfuggì di mano il palloncino che zia Ida mi aveva comperato al mercato in occasione di non so quale festa. Il fatto avvenne al rientro in casa, proprio sul portone d’entrata. Anche allora piansi disperatamente ed il vecchio papagallo m'accolse in cucina la sua residenza, col solito: "poveretto Carletto - poveretto Carletto".
Prima che tutti i miei ricordi si dissolvano nella nebbia che sempre più s'addensa sul viale del tramonto, quale da tempo m'incammino verso l'ultima meta, voglio fissarne alcuni che, sia pure dai contorni di già più o meno sfumati, sono ancora vivi nella mia mente.
Il più lontano nel tempo mi porta a Ronchi dove zio Francesco era capostazione. Francesco Zottich era marito di zia Ida, sorella di papà. Ricordo i suoi baffi biondi alla Guglielmo e la sua faccia che inspirava sempre tanta simpatia. S'occupava di me appena poteva.
Anche zia Ida si dava tanto da fare con me.
Non avevano figli ed io allora avevo due anni e mezzo circa.
Di nonna Carlotta, che viveva con loro, mi ricordo poco. Lei parlava soltanto il dialetto triestino e non conosceva il tedesco che invece si parlava a casa mia, essendo mamma tedesca.
Zio Francesco e zia Ida invece lo parlavano correntemente. Forse per questo l'immagine della nonna a Ronchi passava per me in seconda linea.
Ronchi nel 1911 era un piccolo paese. Ne ricordo solo la stazione che ora s'è notevolmente ingrandita, tanto che come edificio non mi dice più niente. Ricordo le rotaie del treno al di là delle quali c'era un prato sul quale la sera un contadino portava il suo cavallo a pascolare. Oltre al prato c'era pure un campo di granoturco; ricordo l'ippocastano che era a destra della stazione, guardando le rotaie e che ora non c’è più e ricordo soprattutto la vigna, ancora oggi esistente, che allora mi sembrava tanto grande mentre non é che un fazzoletto di terreno recintato a mò di giardino.
Vivo il ricordo del papagallo parlante. Era vecchio e piuttosto male in arnese. Di quanto dicesse mi ricordo però solo il " poveretto Carletto - poveretto Carletto" che ripeteva a mitraglia ogni volta che mi sentiva piangere.
Zia Ida mi portava spesso a Grado che allora era ancora un'isola; sulla spiaggia, che ricordo molto vagamente era dato di raccogliere tanti piccoli granchi. Un giorno di ritorno dalla spiaggia, sul treno che da Belvedere ci riportava a Ronchi, uno di questi simpatici animaletti che avevo raccolto nel mio secchiello e che zia Ida aveva sistemato nella rete portabagagli dello scompartimento, cadde sulla testa del passeggiero che mi sedeva accanto. Questi comprensibilmente contrariato, prese il povero granchio e senza tanti complimenti, lo scraventò fuori dal finestrino. Fù per me una vera tragedia. Il dispiacere, la delusione, l'indignazione e la rabbia esplosero in un pianto che indusse persino lo stesso attentatore a cercare di consolarmi.
E' questo il ricordo più vivo che ho della mia prima villeggiatura.
Un altro dispiacere lo provai, sempre a Ronchi, quando mi sfuggì di mano il palloncino che zia Ida mi aveva comperato al mercato in occasione di non so quale festa. Il fatto avvenne al rientro in casa, proprio sul portone d’entrata. Anche allora piansi disperatamente ed il vecchio papagallo m'accolse in cucina la sua residenza, col solito: "poveretto Carletto - poveretto Carletto".
Nel marzo del 1912 papà venne trasferito da Idria alla miniera di uranio di St. Joachimsthal in Boemia. Del viaggio di trasferimento non ricordo più niente. Evidentemente tutto s'é svolto come da copione senza emozioni.
Sankt Joachimsthal vuol dire: valle si San Gioacchino.
Passata alla Cecoslovacchia, venne chiamata Sveta Jàçhimov che poi divenne semplicemente Jàchimov. Era allora abitata quasi esclusivamente da tedeschi ( sudeti ). Di Cechi v'erano soltanto il direttore della miniera ing. Step, il portiere della fabbrica dei tabacchi del duale non ricordo più il nome e che era anche il capo della banda dei minatori chiamata: "Bergkapelle", la domestica dell'ispettore scolastico aveva un figlio d'un anno più giovane di me e due famiglie di minatori: Ganisth e Prôska i quali di ceco avevano più soltanto il nome.
L'abitato si trova incastrato in una vallata piuttosto stretta, fiancheggiata da catene collinose non molto alte. Nel centro della valle scorre un ruscello, emissario del laghetto detto "Stadtteích". A partire dal lago fino all'osteria chiamata "zur Spitze", a poche centinaia di metri di distanza, esso scorre a cielo aperto. Dove inizia l'abitato vero e proprio, e coperto per quasi tutto il suo percorso.
Manca di copertura solo per brevi tratti nei pressi della Banca e della seconda scuola elementare. Nei pressi del parco della "Kuranstalt" confluisce in un altro torrente che proviene dalla valle che ivi interseca quella, lungo la quale si sviluppa appunto il paese. Nel tratto coperto si trovavano e penso si trovino tuttora, a distanza più o meno regolare, botole di legno che d'inverno venivano aperte anche due volte al giorno, per consentire agli spazzini di gettare nel ruscello la neve che lo spazzaneve accumulava lungo i bordi delle due strade che lo fiancheggiavano. Lo spazzaneve, a traino di cavallo, aveva l'aspetto di una barca fatta a cuneo. Era tutta di legno, a fondo piatto, coi lati rialzati per circa mezzo metro.
La parte a monte della vallata ossia del paese, veniva chiamata:"Öberthal" (valle superiore), quella a valle: "Unterthal" (valle inferiore). Punto di divisione era ed è ancora, praticamente il cimitero, sistemato sulla destra della vallata.
Nell'Oberthal c'era e c’è ancora la chiesa principale, il municipio, la direzione della miniere ora trasformato in museo e la fabbrica di birra ora chiusa. C'erano pure una fabbrica di guanti ed una di bambole, di proporzioni talmente modeste che oggi le si chiamerebbe al massimo laboratori. Non so che fine abbiano fatto. Sempre nell'Oberthal c'era pure una fabbrica di tappi di sughero ed una di sapone, anche queste a scartamento molto ridotto. Poi c'era la biblioteca sistemata al primo piano di una trattoria frequentata dalla buona società del luogo.
Le trattorie ed osterie avevano la funzione di luogo di incontro e ritrovo. C'erano quelle frequentate prevalentemente dalla media ed alta borghesia, come quella in cui si trovava appunto la biblioteca e quelle più modeste nelle quali si ritrovavano i minatori, gli artigiani e gli operai in genere.
Allora la distinzione di classe era ancora molto sentita e rispettata.
Sempre nell'Oberthal c'era anche un ristorante che disponeva al primo piano d'una vasta sala nella quale ogni tanto si svolgevano spettacoli teatrali o di varietà organizzati da compagnie girovaghe.
Ricordo molto bene che ad uno di questi spettacoli mio fratello ed io partecipammo una volta come comparse. Dovevamo attraversare il palco, vestiti da gnomi con tanto di baffi e barba bianca ed ad un certo punto fare finta d'inciampare su d'una radice d'albero che altro non era che un bastone buttato di traverso. Non si trattava d'una parte molto difficile ed impegnativa ma ci faceva ugualmente sentire molto importanti. Credo d'aver avuto allora circa sei anni. Ricordo anche il capo comico d'un altra di queste compagnie girovaghe che ci divertiva un mondo. Era diventato il nostro idolo. Aveva due figli che avevano la nostra età e coi quali avevamo fatto subito amicizia. ln teatro l'uomo faceva ridere tutti, in casa invece litigava di continuo colla moglie e si mostrava tutt'altro che tenero coi figli. Questo, allora, mi faceva pensare molto perché a casa mia io non avevo mai visto litigare i miei genitori che ci volevano molto bene anche se qualche volta si mostravano severi. Ma quell'uomo non era severo, era proprio cattivo.
Ricordo ancora il campo sportivo la "Aussturzhalde” dove ci recavamo appena possibile. Si trattava d'un impianto quanto mai modesto. Uno spiazzo non molto grande, ricavato da un deposito di pietre provenienti da una vecchia galleria mineraria abbandonata ed un capannone in legno che serviva da spogliatoio, privo di servizi ed acqua. La parola "Aussturzhalde” vuol dire "pianoro di scarico.
Poco più in alto del campo sportivo c'erano le rovine di un vecchio castello del quale rimaneva ancora in piedi una torre, non so se abitata o meno. Si trovava praticamente sulla cresta della collina di destra della vallata la quale ivi si presentava colle caratteristiche d'un altipiano. A tergo del castello sorgeva un gruppo di case che formavano un sobborgo denominato "Neustadt", cioé "città nuova".
Le rovine di questo maniero si prestavano molto bene per giuocare alla guerra. Però, se ci ripenso, debbo dire che, pur essendo in corso la prima guerra mondiale e forse proprio per questo, noi ragazzi allora non eravamo molto bellicosi.
Molti dei nostri compagni avevano il padre o i fratelli o altri congiunti al fronte ed ogni tanto si sentiva dire che questo o quello era caduto per la patria. In un piccolo paese, dove tutti si conoscono, il lutto di uno é lutto di tutti.
Sempre nell’Oberthal, altro luogo di giuochi ed esplorazioni era il "Gabelsberg" (monte forcella). Anche questo era sorto da uno scarico di pietre d'un pozzo chiamato 'Einigkeitsstollen" (galleria dell'unità), che peraltro, pur esaurito, manteneva pienamente efficenti tutti i servizi ed impianti ausiliari, ascensore compreso.
Questo monticello, sul quale crescevano abeti non molto alti che chiaramente tradivano l’aridità del terreno, era per noi ricco d'attrattive. C'era uno spiazzo sul quale giuocare ed una trincea in cemento che serviva o aveva servito ai "Schützen" per il tiro a segno. Così almeno ci raccontavano, perché per tutta la permanenza a St.Joachimsthal, non ho mai visto un "Schütze" sparare anche una sola cartuccia. Di cartucce invece abbiamo trovate moltissime, subito dopo finita ”la guerra, nel fossato coperto che dallo spiazzo del monticello portava giù al pozzo. Evidentemente molti reduci si erano così liberati delle loro munizioni in dotazione.
Coll'incoscienza tipica dei ragazzi in cerca di emozioni, noi le raccoglievamo per farle scoppiare. Potevamo rimanere feriti se non peggio. Invece non é mai successo nulla. La tecnica usata era quella di fissare fra grosse pietre il proiettile colla pallottola in giù. Poi si tirava a sorte chi doveva farle scoppiare.
Mentre ci riparavamo dietro gli alberi, il prescelto, anch’esso riparato dietro un albero, faceva cadere sulla cartuccia una grossa pietre che ne provocava lo scoppio. Il divertimento non é durato lungo. La voce della nostra bravata alla quale partecipavano più d'uno dei nostri compagni di scuola, si era rapidamente diffusa ed in pochi giorni le cartucce erano sparite, scrupolosamente rastrellate dalla gendarmeria.
Un altro posto che ci attirava, d'estate per fare i bagni e d'inverno per vedere gli altri pattinare, era lo "Stadtteich" già citato, che anche nelle giornate più calde aveva l'acqua maledettamente fredda. D'inverno si copriva di una spessa coltre di ghiaccio. Pattinarvi sopra era pertanto pericoloso. II ghiaccio non aveva ovunque lo stesso spessore ed e successo più d'una volta qualche incauto pattinatore finisse nell'acqua gelida e vi si annegasse. Perciò papà e mamma ci avevano sempre proibito d'andarvi d'inverno. Ma, si sa, ci andavamo lo stesso.
Quando il ghiaccio raggiungeva un certo spessore quelli della fabbrica di birra venivano a tagliarlo in grossi blocchi che venivano trascinati in un deposito che faceva parte della fabbrica medesima. I frigoriferi allora non esistevano ancora.
L'Unterthal costituiva la parte nobile della città. Vi aveva sede la "Kuranstalt" (lo stabilimento di cura) che, si diceva, fosse l'impianto più moderno e funzionale d'Europa ed il Kurhaus che era fra gli alberghi più grandi e confortevoli dell'impero. C'era la Depandance, altro albergo di gran lusso e due, tre altri meno famosi, ma sempre di prima classe.
D'estate, quasi ogni sera, c’era concerto nel parco dello stabilimento di cura, frequentato da pazienti provenienti da tutte le parti.
L'acqua radioattiva che nello stabilimento veniva usata per la cura dell'artrite, reumatismo ed ischialgie, vi giungeva direttamente dalla miniera grazie ad uno speciale impianto di pompaggio. Quali fossero i risultati di questi bagni radioattivi, allora molto in auge nel mondo capitalista, non lo so. A giudicare dalla fama che avevano non devono essere stati deludenti. Di cancro allora nessuno ne sapeva qualche cosa.
Quando nel 1961 e 1964 sono tornato a Jachymov, lo stabilimento era ancora in funzione, sia pure in forma molto ridotta. Anzi era l'unica cosa che vi funzionasse ancora perché il resto era in disfacimento. La miniera era chiusa, la ferrovia distrutta, il cinema raso al suolo ed oltre l'ottanta per cento delle case completamente abbandonate.
Dopo l'ultimo conflitto Jàchymov era stata occupata dalle truppe sovietiche che l'avevano trasformata in un campo di concentramento nel quale prigionieri di guerra e dissidenti politici furono costretti ai lavori forzati in miniera.
Quando i russi se ne andarono la miniera venne chiusa perché totalmente sfruttata.
Noi abitavamo nell’Oberthal. Nei primi anni in un vecchio edificio che ricordo ancora in tutti i suoi particolari. Poi ci trasferimmo in una casa più moderna. Nella prima non c’era la luce elettrica ed i servizi erano all'antica. Nelle seconda invece c'era la luce elettrica e c'era il closet e peranco un bagno, magari colla vasca in legno, ma pur sempre un bagno che ovviamente serviva anche da lavanderia.
Quando sono tornato nel 1961, la vecchia casa non c'era più. Era stata demolita perché dichiarata radioattiva. Così almeno mi fu detto. Io però ci credo poco a questa motivazione. Ricordo che la cantina della casa era stata ricavata da una vecchia galleria che dava direttamente sul pozzo dell'"Einigkeitsstollen". Si chiudeva dalla parte dell'ascensore. Penso che durante l'occupazione sovietica il contatto fra la cantina e l'ascensore del pozzo sia stato segretamente ristabilito per consentire a qualche prigioniero di darsi alla fuga e che i russi, scoperto il trucco, abbiano distrutto tutto: casa e galleria.
Me lo fa pensare il fatto che anche la ferrovia venne in quel periodo rasa al suolo per isolare la città dal resto del mondo come si addice ad ogni campo di concentramento per i condannati ai lavori forzati.
Se la casa fosse stata distrutta perchè radioattiva, perché la stessa sorte non era stata riservata anche allo stabilimento termale che è ed è sempre stato il luogo più contaminato ?
Questa nostra prima abitazione si trovava tra due strade a diverso livello. L'ingresso principale dava sulla strada maestra, mentre la parte retrostante dava in parte su un piccolo cortile dal quale si arrivava al giardino a mezzo di una breve scalinata in pietra ed in parte direttamente sul giardino a mezzo d'un corridoio coperto. Questo corridoio che univa parte del primo piano dell'edificio al giardino, era piuttosto ampio e lungo. Vi si entrava a mezzo d'una porta che lo separava dal vano scale dell'abitazione. A destra, sulla stessa parete, si trovava la scala che portava in soffitta, mentre sulla parete destra del corridoio v'era un altro portone che dava sulla via laterale che univa le due strade che come detto, delimitavano il casato. Sulla parete di sinistra c'era una finestra che dava sul cortile. Poi il corridoi si restringeva a causa del ripostiglio esistente a destra e dei due gabinetti a caduta diretta a sinistra. Di questi due "cessi", uno serviva alle esigenze fisiologiche della famiglia, l'altro alla passione fotografica di papà, come camera oscura. Poi il corridoio s'allargava di nuovo. A destra c'era la legnaia ed il deposito di carbone, a sinistra una scala che dava al sottotetto del corridoio. Quindi la porta che s'apriva sul giardino e che all’esterno era protetta da una tettoia contro la neve che d'inverno arrivava anche a due metri d'altezza ed oltre.
Il giardino non era molto grande. Subito a sinistra v'era un recinto per le oche, le mie nemiche. Ricordo che una volta, mentre ero con Bruno in giardino, mi venne la buona idea di aprire il portoncino di questo recinto. Subito una di loro prese a rincorrermi per prendermi per i fondelli. Sono riuscito malamente a mettermi in salvo. Lo spavento e stato grande ma salutare perchè d'allora in poi mi sono sempre ben guardato dalle "oche". Penso d'aver avuto allora non più di quattro anni.
Nel giardino crescevano due alberi di mele che non giungevano mai a maturazione. C'era anche un modestissimo orto che però non ricordo cosa producesse.
Sul terreno erboso papà aveva fatto impiantare due pali che sostenevano una barra di ferro sulla quale ogni tanto faceva ginnastica per tenersi in forma. A Bruno e me l'attrezzo serviva ottimante per allestirvi un dondolo: due corde ad ansa nelle quali infilavamo una tavoletta ed il dondolo era bell' e pronto. A volte si toglieva la tavoletta ed ognuno per conto suo s'infilava nell'ansa fino sotto l'ascella girandosi e dondolandosi in piena indipendenza.
Così avvenne un mattino dopo una pioggia, col terreno fangoso e scivolevole. Invece di dondolarci abbiamo finito col girare intorno a noi stessi. Così l'ansa della corda attorcigliandosi, stringeva sempre più il torace. Io sono riuscito a malapena a liberarmi dalla stretta, mentre Bruno, che era più piccolo, non ce la fece. Ad un dato momento, liberate le braccia, è rimasto colla corda intorno al collo. Spaventato, non sapevo come aiutarlo. Mentre chiedeva aiuto rantolando, sono corso in cucina a chiamare la mamma. Quando tornai in giardino con lei e la donna di servizio, un uomo ci venne con Bruno sulla braccia. L'aveva sentito piangere e chiedere aiuto e resosi subito conto che qualche cosa di grave stava accadendo, senza perdere tempo aveva saltato lo steccato che divideva il giardino dalla strada e tagliata la corda che lo stava strangolando. Mamma era fuori di se, io invece mi sentivo sollevato. Inutile dire che da quel giorno scomparve dal giardino il corpo del reato.
Un luogo dove andavano spesso e volentieri a giocare era la soffitta, fatta di vari vani, nei quali si trovava un po’ di tutto. In soffitta finiva tutto ciò che in casa non serviva. Era piena soprattutto di casse d'ogni dimensione cha erano servite al trasferimento dal nostro mobilio da Idria a St Joachimsthal e vanivano conservate per altri eventuali trasferimenti. Alcune erano vuote, altre piu o meno piene della "roba per l'inverno" - capotti, vestiti, coperte e piumini.
Un giorno che ci eravamo calati dentro in una di queste, piena di piumini, sentendoci chiamati dalla mamma, ci venne la peregrina idea di farle uno scherzo. Invece di rispondere ai suoi richiami, ci siamo calati sulla testa il coperchio della cassa rimanendovi dentro zitti, zitti. Vuol per il caldo vuoi per la mancanza di una regolare ventilazione, abbiamo finito coll'addormentarci profondamente. Mamma, non trovandoci, fù presa dal panico e mobilitò tutto il rione alla nostra ricerca. Pare ci sia voluto molto tempo prima che a qualcuno fosse venuta l'idea d'aprire la cassa. A parere di tutti abbiamo corso il pericolo di morire asfissiati. Per fortuna il nostro angelo custode ci ha salvati in tempo. Questo almeno il commento della mamma che vedeva angeli e diavoli dappertutto.
Un altro salvataggio da parte dell'angelo custode ci fu quando, ammalato di difterite, causa il cattivo funzionamento della stufa, la camera da letto nella qual ero stato lasciato solo venne invasa dal fumo. Ricordo che sognavo di nuvole su nuvole che mi schiacciavano. Era una sensazione che provavo e provo tutt'ora quando ho la febbre alta. Poi il risveglio in mezzo al fumo. Mi sentivo paralizzato. Chiamai la mamma disperatamente. La rivedo entrare nella stanza, aprire la finestra e strapparmi dal letto singhiozzando: "Um Gottes Willen! Um Gottes Willen! Jesus Maria! Jesus Maria!" ( Dio mio - Gesù Maria ) erano le frasi che mamma pronunciava ogni qualvolta veniva colta dal panico ed era disperata.
Ricordo pure che nella vecchia abitazione c'erano anche gli spiriti. Più precisamente l'anima dannata di un giovane che alcuni anni prima che noi venissimo ad abitarvi, s'era impiccato nel solaio ed ogni tanto sentiva il bisogno di farsi sentire. Naturalmente, come tutti gli spiriti che si rispettano, si faceva vivo solo di notte.
Ogni tanto mamma si confidava colla donna di servizio, che si chiamava Fanny, sui strani fenomeni che si verificavano dopo mezzanotte. Una mattina le raccontò, molto agitata, che aveva trovata la tavola in camera da pranzo in gran disordine mentre era sicurissima di aver lasciato tutto in ordine prima di andare a letto. Rammento molto bene che quel giorno mamma e papà decisero di fare benedire l'abitazione. Venne chiamato per la bisogna lo stesso decano di cui ricordo peranco il nome:"Rreitenkopf“ (testa larga). Egli ebbe un gran successo perchè per molto tempo e casa mia di spiriti non se ne parlò più. Poi addirittura la loro esistenza finì coll'essere messa seriamente in dubbio.
Un bel mattino infatti, mamma raccontò a Fanny che quella notte erano stati svegliati da strani rumori provenienti dal salotto attiguo alla loro camera da letto. S'erano alzati, avevano accesa una candela, papà s'era armato della sciabola da parata che teneva nell'armadio assieme all'alta uniforme e così, mamma con in mano la candela e papà colla sciabola sguainata, pian pianino avevano coraggiosamente aperta la porta del salotto. Grande la sorpresa quando s’accorsero che un grosso ratto, spaventatissimo, cercava velocemente ci sottrarsi al loro assalto.
Debbo pero confessare che, per quanto ridimensionata, la credenza negli spiriti, la mamma non la perdette mai.
Altro ricordo, legato alla vecchia casa, fù il mio primo giorno ci scuola. Fu un giorno molto importante non solo per me, ma per tutta la famiglia. Quel mattino mamma s'occupò della mia persona più del solito. Dovevo fare bella figura. Papà di norma serio, era sorridente. Fù lui ad accompagnarmi.
Io naturalmente ero molto emozionato ed anche fiero. Da mesi mi sentivo dire che da allora in poi non sarei più stato un bambino "irresponsabile" ed infatti da quel giorno il senso di responsabilità mi colse e mi penetrò sempre più nelle ossa per perseguitarmi ossessivamente per tutta la vita.
Sulla porta della classe c'era il maestro che ci venne incontro. Parlò prima con papà poi m'accompagnò in classe assegnandomi un posto in prima fila. Altri bambini continuavano ad arrivare. Tutti accompagnati. Poi suonò la campana ed il maestro chiuse la porta. Qualcuno dei bambini cominciò a piangere ma poi, dopo il discorsetto che il maestro ci fece accettò rassegnato la situazione. Del resto non aveva altra scelta.
Oggi si parla molto dei handicappati. E’ diventato un grosso problema. Gli handicappati esistevano anche allora, solo che non si chiamavano "handicappati" ma “anormali“ e di loro tutti cercavano di parlarne il meno possibile.
Nella scuola elementare io avevo uno di questi per compagno. Aveva ripetuto per più anni la prima ed era stato promosso alla seconda per "anzianità". Lo ricordo perché un giorno si mise a giuocare in classe e rimproverato dalla maestra, le morsico la mano. Venne chiamato il direttore che gli diede dei sonori ceffone lo buttò fuori dalla classe.
Rimase sospeso per qualche giorno, poi riprese il suo posto come prima. Invece la povera maestrina, che era molto giovane e bella, venne sostituita con un'altra già avanti negli anni e tremendamente energica. Colla bacchetta in mano metteva sempre tutto e tutti a posto.
Oggi gli scolari sono degli intoccabili. Allora prendevano legnate non solo se facevano i discoli, ma anche se non avevano fatto il compito o non ricordavano ciò che a parere del maestro avremmo dovuto ricordare. Anch'io, pur essendo sempre stato nelle elementari, fra i primi, se non il primo della classe, ho provato più d'una volta la bacchetta sulle punte delle dita o per non aver fatto il compito o per non aver saputo rispondere a qualche domanda. Non mi risulta che ci sia mai stato qualche genitore a protestare contro questo sistema. Tutt'altro! Il maestro aveva sempre ragione. Anche quando esagerava, il che accadeva di sovente.
Quando dalla vecchia abitazione siamo passati alla nuova, avevamo per vicini di casa una famiglia che aveva tre figli uno normale e due anormali: un mongoloide ed un nano.
La famiglia viveva molto ritirata ed evitava, come meglio poteva, di mettere in mostra i due infelici; questi, almeno così mi pareva allora, sembravano dei rassegnati. Il mongoloide in vero ogni tanto diventava cattivo. L'altro invece sembrava non rendersi nessun conto della sua situazione; sorrideva spesso e volentieri come sono uso fare gli scemi. E tutti lo consideravano appunto tale.
Fra i nostri divertimenti c'era cure quello di fare i chierichetti (Ministranten). Per Pasqua p.es. attendevamo per ore il nostro turno davanti al santo sepolcro, eretto per l'occasione in fondo alla navata destra della chiesa. Il turno poi era di mezz'ora, sia per noi chierichetti, che per tutto questo periodo stavamo in ginocchio, sia per i due pompieri in alta uniforme che invece vi stavano rigidamente sull'attenti assieme ai due veterani (ex combattenti). Nelle grandi occasioni servivamo anche la Messa. Quello che, come chierichetti però ci impegnava di più erano i funerali. Lì erano in giuoco non soltanto la salvezza delle nostre anime, ma, quasi sempre, anche il guiderdone di due Heller o addirittura di due Kreuzer. Poi c’era anche ( e per noi forse sovra tutto) la parte spettacolare.
A St.Joachimsthal, che credo non avesse allora più di 4 -5 mila abitanti, un funerale era sempre un grande avvenimento. I funerali più imponenti erano naturalmente quelli dei minatori e specialmente di quelli morti per infortunio.
Avevano luogo quasi sempre nel tardo pomeriggio al calare delle tenebre. Vi partecipava praticamente tutta la popolazione senza distingione di ceto e censo. I minatori erano tutti in alta tenuta ed accompagnavano il feretro colle lampade (di carburo) accese e le picozze da parata sulle spalle.
Tutti andavano a-passo anche chi non era in divisa. La banda suonava per tutto il percorso, a brevi intervalli, melodiose e triste marce funebri. La carrozza che portava la bara,era monumentale e riccamente addobbata. Veniva trainata da due o quattro cavalli bardati di naro. Giunti al cimitero tutti si fermavano. ll feretro, tolto dalla carrozza, veniva portato a spalle verso la tomba, mentre la banda si fermava fuori dal camposanto. Li, nel più rispettoso silenzio dei partecipanti, interrotto solo dal pianfio soffocato dei congiunti, dopo l'ultima benedizione ed il saluto “Glück auf!", scandito ad alta voce dai minatori, la bara veniva calata lentamente nella fossa, mentre la banda da fuori delle mure intonava sommessamente l'ultimo canto: Es ist bestimmt im Gottes Rat... Erano momenti di profonda commozione per tutti, commozione che ha lasciato un indelebile solco nel mio subcosciente.
A cerimonia finita, i minatori, sempre perfettamente inquadrati, banda in testa, bandiera al vento, ritornavano in città a suon di marce allegre e gaie come se tornassero da una festa. La vita voltava le spalle alla morte riprendendo beffardamente il suo corso di sempre.
Tornato dalla guerra, ci fù un periodo in cui morti e funerali, cimiteri sconnessi e chiese senza uscita, mi rincorsero nei sogni finché non ritornai a Jãchymov come turista nel 1961 - 1964 ove entrambe le volte andai anche a vedere il vecchio camposanto. Non vi trovai tombe con nomi conosciuti ma in compenso morti ed i funerali, i cimiteri sconnessi e le chiese senza uscita, uscirono dai miei sogni.
Un altro evento che colpì la mia fantasia e che a distanza di tanti anni e ancora vivo nella mia mente, mi riporta nuovamente sulla soglia del vecchio camposanto. Fù dopo un funerale, al quale avevo partecipato come chierichetto assieme a Bruno, che uno della banda, che entrambi conoscevamo molto bene, ci salutò con un sorriso alquanto enigmatico per poi rivolgersi ad un suo compagno colle parole, proferite ad alta voce "allora ci rivediamo per le otto". Doveva rimanere un segreto, ma strada faccendo venimmo a sapere che quella sera, alle otto, i minatori avrebbero dato l'addio a papà che era stato ufficialmente trasferito a Idria.
Dopo il crollo dell'impero austro ungarico infatti, papà aveva optato per l'Italia. Ma anche allora la burocrazia era molto lenta ed il permesso per il suo rientro in patria gli era giunto solo pochi giorni prima e precisamente il 14 ottobre 1920. La notizia della sua imminente partenza s'era subito diffusa e quella sera appunto, i suoi minatori volevano salutarlo alla loro maniera.
Perchè papà non fosse colto alla sprovvista, appena rientrati dal funerale, abbiamo subito raccontato a mamma quanto ci era stato confidato. Lei ci assicuro che papà era già stato messo al corrente di tutto in "segreto" e che aveva anche preparato per l'occasíone un breve discorso. Ci preparò la cena ancora prima che egli arrivasse e ci mandò a letto con mille raccomandazioni di non farci più vedere. Si capiva che era molto agitata.
Ugo che aveva allora circa quattro anni, s'addormentò tranquillamente mentre noi due, eccitatissimi, invece di rimanere sotto le coperte, ci affacciammo di continuo alle finestre della camera da letto che davano sulla strada, come quelle dell'attigua camera di soggiorno nella quale papà e mamma attendevano gli eventi.
Non erano passate da molto le otto che la nostra emozione giunse al culmine. Era una bellissima serata d'autunno col cielo pieno di stelle ed ecco che da lontano ci giunse finalmente il suono della banda e poco dopo apparve anche il corteo. Un enorme rettangolo d'oro in fiamme seguito da una lunga doppia fila di luci d'argento verso l'esterno e d'oro pallido verso l'interno che s'avvicinava ondeggiante a rito di marcia. I riflessi delle fiaccole che ogni suonatore aveva accanto a sè davano infatti questa magica impressione, mentre le lampade ardenti portate dai minatori che portavano pure le picozze da parata, completavano questa fantastica visione che non dimenticherò mai.
Giunto davanti a casa nostra, il corteo si fermò e prese posizione frontale. La banda intonò una marcia che allora mi parve la più bella marcia del mondo. Poi una deputazione di tre minatori con a capo lo Steiger (mastro minatore) salì da noi per salutare papà a nome di tutti.
Sebbene ci fosse stato proibito d'entrare nella stanza da soggiorno dove l’incotro si stava svolgendo, non potemmo fare a meno di aprire furtivamente la porta per curiosare. Papà e mamma se ne accorsero subito ma invece di sgridarci, come temevamo, ci sorrisero affettuosamente ed anche quelli della deputazione ci guadarono sorridendo. Vistici scoperti richiudemmo subito l'uscio per riaprirlo di nuovo poco dopo che la rappresentanza se ne era andata. Vedemmo papà affacciato alla finestra che parlava ai suoi uomini e mamma in ginocchio accanto a lui a fargli da suggeritrice col testo del discorso in mano. Questa volta nessuno s'accorse di noi che richiudevamo subito la porta per riportarci sulle finestre della camera da letto. Quando papà ebbe finito di parlare ci fù da parte dei minatori il tradizionale saluto alla voce:"Glück auf!". Quindi la banda intonò un altro pezzo, finito il quale, pochi secchi comandi e tutti perfettamente inquadrati ripresero a suon di marce la via del ritorno.
Passando davanti alla Direzione ove abitava pure il Direttore della miniera ing. Step, essi non si fermarono, come era probabilente nelle attese delle autorità politiche neo costituite, perche nei giorni successivi le critiche non sono'mancate. Ormai Jàchymov era cecoslovacca e l'ing. Step, natio di Praga era appunto diventato sul posto uno dei più autorevoli esponenti di quella nazione. Per me le critiche allora non avevano alcuna importanza, anche perché non ero in grado di valutarne la portata. Per me contava soltanto l'omaggio reso a papà. Ero fiero di lui e felice di poter constatare quanto fosse benvoluto e stimato da tutti.
Lui "l'Italiener Katzelmacher".
Sankt Joachimsthal vuol dire: valle si San Gioacchino.
Passata alla Cecoslovacchia, venne chiamata Sveta Jàçhimov che poi divenne semplicemente Jàchimov. Era allora abitata quasi esclusivamente da tedeschi ( sudeti ). Di Cechi v'erano soltanto il direttore della miniera ing. Step, il portiere della fabbrica dei tabacchi del duale non ricordo più il nome e che era anche il capo della banda dei minatori chiamata: "Bergkapelle", la domestica dell'ispettore scolastico aveva un figlio d'un anno più giovane di me e due famiglie di minatori: Ganisth e Prôska i quali di ceco avevano più soltanto il nome.
L'abitato si trova incastrato in una vallata piuttosto stretta, fiancheggiata da catene collinose non molto alte. Nel centro della valle scorre un ruscello, emissario del laghetto detto "Stadtteích". A partire dal lago fino all'osteria chiamata "zur Spitze", a poche centinaia di metri di distanza, esso scorre a cielo aperto. Dove inizia l'abitato vero e proprio, e coperto per quasi tutto il suo percorso.
Manca di copertura solo per brevi tratti nei pressi della Banca e della seconda scuola elementare. Nei pressi del parco della "Kuranstalt" confluisce in un altro torrente che proviene dalla valle che ivi interseca quella, lungo la quale si sviluppa appunto il paese. Nel tratto coperto si trovavano e penso si trovino tuttora, a distanza più o meno regolare, botole di legno che d'inverno venivano aperte anche due volte al giorno, per consentire agli spazzini di gettare nel ruscello la neve che lo spazzaneve accumulava lungo i bordi delle due strade che lo fiancheggiavano. Lo spazzaneve, a traino di cavallo, aveva l'aspetto di una barca fatta a cuneo. Era tutta di legno, a fondo piatto, coi lati rialzati per circa mezzo metro.
La parte a monte della vallata ossia del paese, veniva chiamata:"Öberthal" (valle superiore), quella a valle: "Unterthal" (valle inferiore). Punto di divisione era ed è ancora, praticamente il cimitero, sistemato sulla destra della vallata.
Nell'Oberthal c'era e c’è ancora la chiesa principale, il municipio, la direzione della miniere ora trasformato in museo e la fabbrica di birra ora chiusa. C'erano pure una fabbrica di guanti ed una di bambole, di proporzioni talmente modeste che oggi le si chiamerebbe al massimo laboratori. Non so che fine abbiano fatto. Sempre nell'Oberthal c'era pure una fabbrica di tappi di sughero ed una di sapone, anche queste a scartamento molto ridotto. Poi c'era la biblioteca sistemata al primo piano di una trattoria frequentata dalla buona società del luogo.
Le trattorie ed osterie avevano la funzione di luogo di incontro e ritrovo. C'erano quelle frequentate prevalentemente dalla media ed alta borghesia, come quella in cui si trovava appunto la biblioteca e quelle più modeste nelle quali si ritrovavano i minatori, gli artigiani e gli operai in genere.
Allora la distinzione di classe era ancora molto sentita e rispettata.
Sempre nell'Oberthal c'era anche un ristorante che disponeva al primo piano d'una vasta sala nella quale ogni tanto si svolgevano spettacoli teatrali o di varietà organizzati da compagnie girovaghe.
Ricordo molto bene che ad uno di questi spettacoli mio fratello ed io partecipammo una volta come comparse. Dovevamo attraversare il palco, vestiti da gnomi con tanto di baffi e barba bianca ed ad un certo punto fare finta d'inciampare su d'una radice d'albero che altro non era che un bastone buttato di traverso. Non si trattava d'una parte molto difficile ed impegnativa ma ci faceva ugualmente sentire molto importanti. Credo d'aver avuto allora circa sei anni. Ricordo anche il capo comico d'un altra di queste compagnie girovaghe che ci divertiva un mondo. Era diventato il nostro idolo. Aveva due figli che avevano la nostra età e coi quali avevamo fatto subito amicizia. ln teatro l'uomo faceva ridere tutti, in casa invece litigava di continuo colla moglie e si mostrava tutt'altro che tenero coi figli. Questo, allora, mi faceva pensare molto perché a casa mia io non avevo mai visto litigare i miei genitori che ci volevano molto bene anche se qualche volta si mostravano severi. Ma quell'uomo non era severo, era proprio cattivo.
Ricordo ancora il campo sportivo la "Aussturzhalde” dove ci recavamo appena possibile. Si trattava d'un impianto quanto mai modesto. Uno spiazzo non molto grande, ricavato da un deposito di pietre provenienti da una vecchia galleria mineraria abbandonata ed un capannone in legno che serviva da spogliatoio, privo di servizi ed acqua. La parola "Aussturzhalde” vuol dire "pianoro di scarico.
Poco più in alto del campo sportivo c'erano le rovine di un vecchio castello del quale rimaneva ancora in piedi una torre, non so se abitata o meno. Si trovava praticamente sulla cresta della collina di destra della vallata la quale ivi si presentava colle caratteristiche d'un altipiano. A tergo del castello sorgeva un gruppo di case che formavano un sobborgo denominato "Neustadt", cioé "città nuova".
Le rovine di questo maniero si prestavano molto bene per giuocare alla guerra. Però, se ci ripenso, debbo dire che, pur essendo in corso la prima guerra mondiale e forse proprio per questo, noi ragazzi allora non eravamo molto bellicosi.
Molti dei nostri compagni avevano il padre o i fratelli o altri congiunti al fronte ed ogni tanto si sentiva dire che questo o quello era caduto per la patria. In un piccolo paese, dove tutti si conoscono, il lutto di uno é lutto di tutti.
Sempre nell’Oberthal, altro luogo di giuochi ed esplorazioni era il "Gabelsberg" (monte forcella). Anche questo era sorto da uno scarico di pietre d'un pozzo chiamato 'Einigkeitsstollen" (galleria dell'unità), che peraltro, pur esaurito, manteneva pienamente efficenti tutti i servizi ed impianti ausiliari, ascensore compreso.
Questo monticello, sul quale crescevano abeti non molto alti che chiaramente tradivano l’aridità del terreno, era per noi ricco d'attrattive. C'era uno spiazzo sul quale giuocare ed una trincea in cemento che serviva o aveva servito ai "Schützen" per il tiro a segno. Così almeno ci raccontavano, perché per tutta la permanenza a St.Joachimsthal, non ho mai visto un "Schütze" sparare anche una sola cartuccia. Di cartucce invece abbiamo trovate moltissime, subito dopo finita ”la guerra, nel fossato coperto che dallo spiazzo del monticello portava giù al pozzo. Evidentemente molti reduci si erano così liberati delle loro munizioni in dotazione.
Coll'incoscienza tipica dei ragazzi in cerca di emozioni, noi le raccoglievamo per farle scoppiare. Potevamo rimanere feriti se non peggio. Invece non é mai successo nulla. La tecnica usata era quella di fissare fra grosse pietre il proiettile colla pallottola in giù. Poi si tirava a sorte chi doveva farle scoppiare.
Mentre ci riparavamo dietro gli alberi, il prescelto, anch’esso riparato dietro un albero, faceva cadere sulla cartuccia una grossa pietre che ne provocava lo scoppio. Il divertimento non é durato lungo. La voce della nostra bravata alla quale partecipavano più d'uno dei nostri compagni di scuola, si era rapidamente diffusa ed in pochi giorni le cartucce erano sparite, scrupolosamente rastrellate dalla gendarmeria.
Un altro posto che ci attirava, d'estate per fare i bagni e d'inverno per vedere gli altri pattinare, era lo "Stadtteich" già citato, che anche nelle giornate più calde aveva l'acqua maledettamente fredda. D'inverno si copriva di una spessa coltre di ghiaccio. Pattinarvi sopra era pertanto pericoloso. II ghiaccio non aveva ovunque lo stesso spessore ed e successo più d'una volta qualche incauto pattinatore finisse nell'acqua gelida e vi si annegasse. Perciò papà e mamma ci avevano sempre proibito d'andarvi d'inverno. Ma, si sa, ci andavamo lo stesso.
Quando il ghiaccio raggiungeva un certo spessore quelli della fabbrica di birra venivano a tagliarlo in grossi blocchi che venivano trascinati in un deposito che faceva parte della fabbrica medesima. I frigoriferi allora non esistevano ancora.
L'Unterthal costituiva la parte nobile della città. Vi aveva sede la "Kuranstalt" (lo stabilimento di cura) che, si diceva, fosse l'impianto più moderno e funzionale d'Europa ed il Kurhaus che era fra gli alberghi più grandi e confortevoli dell'impero. C'era la Depandance, altro albergo di gran lusso e due, tre altri meno famosi, ma sempre di prima classe.
D'estate, quasi ogni sera, c’era concerto nel parco dello stabilimento di cura, frequentato da pazienti provenienti da tutte le parti.
L'acqua radioattiva che nello stabilimento veniva usata per la cura dell'artrite, reumatismo ed ischialgie, vi giungeva direttamente dalla miniera grazie ad uno speciale impianto di pompaggio. Quali fossero i risultati di questi bagni radioattivi, allora molto in auge nel mondo capitalista, non lo so. A giudicare dalla fama che avevano non devono essere stati deludenti. Di cancro allora nessuno ne sapeva qualche cosa.
Quando nel 1961 e 1964 sono tornato a Jachymov, lo stabilimento era ancora in funzione, sia pure in forma molto ridotta. Anzi era l'unica cosa che vi funzionasse ancora perché il resto era in disfacimento. La miniera era chiusa, la ferrovia distrutta, il cinema raso al suolo ed oltre l'ottanta per cento delle case completamente abbandonate.
Dopo l'ultimo conflitto Jàchymov era stata occupata dalle truppe sovietiche che l'avevano trasformata in un campo di concentramento nel quale prigionieri di guerra e dissidenti politici furono costretti ai lavori forzati in miniera.
Quando i russi se ne andarono la miniera venne chiusa perché totalmente sfruttata.
Noi abitavamo nell’Oberthal. Nei primi anni in un vecchio edificio che ricordo ancora in tutti i suoi particolari. Poi ci trasferimmo in una casa più moderna. Nella prima non c’era la luce elettrica ed i servizi erano all'antica. Nelle seconda invece c'era la luce elettrica e c'era il closet e peranco un bagno, magari colla vasca in legno, ma pur sempre un bagno che ovviamente serviva anche da lavanderia.
Quando sono tornato nel 1961, la vecchia casa non c'era più. Era stata demolita perché dichiarata radioattiva. Così almeno mi fu detto. Io però ci credo poco a questa motivazione. Ricordo che la cantina della casa era stata ricavata da una vecchia galleria che dava direttamente sul pozzo dell'"Einigkeitsstollen". Si chiudeva dalla parte dell'ascensore. Penso che durante l'occupazione sovietica il contatto fra la cantina e l'ascensore del pozzo sia stato segretamente ristabilito per consentire a qualche prigioniero di darsi alla fuga e che i russi, scoperto il trucco, abbiano distrutto tutto: casa e galleria.
Me lo fa pensare il fatto che anche la ferrovia venne in quel periodo rasa al suolo per isolare la città dal resto del mondo come si addice ad ogni campo di concentramento per i condannati ai lavori forzati.
Se la casa fosse stata distrutta perchè radioattiva, perché la stessa sorte non era stata riservata anche allo stabilimento termale che è ed è sempre stato il luogo più contaminato ?
Questa nostra prima abitazione si trovava tra due strade a diverso livello. L'ingresso principale dava sulla strada maestra, mentre la parte retrostante dava in parte su un piccolo cortile dal quale si arrivava al giardino a mezzo di una breve scalinata in pietra ed in parte direttamente sul giardino a mezzo d'un corridoio coperto. Questo corridoio che univa parte del primo piano dell'edificio al giardino, era piuttosto ampio e lungo. Vi si entrava a mezzo d'una porta che lo separava dal vano scale dell'abitazione. A destra, sulla stessa parete, si trovava la scala che portava in soffitta, mentre sulla parete destra del corridoio v'era un altro portone che dava sulla via laterale che univa le due strade che come detto, delimitavano il casato. Sulla parete di sinistra c'era una finestra che dava sul cortile. Poi il corridoi si restringeva a causa del ripostiglio esistente a destra e dei due gabinetti a caduta diretta a sinistra. Di questi due "cessi", uno serviva alle esigenze fisiologiche della famiglia, l'altro alla passione fotografica di papà, come camera oscura. Poi il corridoio s'allargava di nuovo. A destra c'era la legnaia ed il deposito di carbone, a sinistra una scala che dava al sottotetto del corridoio. Quindi la porta che s'apriva sul giardino e che all’esterno era protetta da una tettoia contro la neve che d'inverno arrivava anche a due metri d'altezza ed oltre.
Il giardino non era molto grande. Subito a sinistra v'era un recinto per le oche, le mie nemiche. Ricordo che una volta, mentre ero con Bruno in giardino, mi venne la buona idea di aprire il portoncino di questo recinto. Subito una di loro prese a rincorrermi per prendermi per i fondelli. Sono riuscito malamente a mettermi in salvo. Lo spavento e stato grande ma salutare perchè d'allora in poi mi sono sempre ben guardato dalle "oche". Penso d'aver avuto allora non più di quattro anni.
Nel giardino crescevano due alberi di mele che non giungevano mai a maturazione. C'era anche un modestissimo orto che però non ricordo cosa producesse.
Sul terreno erboso papà aveva fatto impiantare due pali che sostenevano una barra di ferro sulla quale ogni tanto faceva ginnastica per tenersi in forma. A Bruno e me l'attrezzo serviva ottimante per allestirvi un dondolo: due corde ad ansa nelle quali infilavamo una tavoletta ed il dondolo era bell' e pronto. A volte si toglieva la tavoletta ed ognuno per conto suo s'infilava nell'ansa fino sotto l'ascella girandosi e dondolandosi in piena indipendenza.
Così avvenne un mattino dopo una pioggia, col terreno fangoso e scivolevole. Invece di dondolarci abbiamo finito col girare intorno a noi stessi. Così l'ansa della corda attorcigliandosi, stringeva sempre più il torace. Io sono riuscito a malapena a liberarmi dalla stretta, mentre Bruno, che era più piccolo, non ce la fece. Ad un dato momento, liberate le braccia, è rimasto colla corda intorno al collo. Spaventato, non sapevo come aiutarlo. Mentre chiedeva aiuto rantolando, sono corso in cucina a chiamare la mamma. Quando tornai in giardino con lei e la donna di servizio, un uomo ci venne con Bruno sulla braccia. L'aveva sentito piangere e chiedere aiuto e resosi subito conto che qualche cosa di grave stava accadendo, senza perdere tempo aveva saltato lo steccato che divideva il giardino dalla strada e tagliata la corda che lo stava strangolando. Mamma era fuori di se, io invece mi sentivo sollevato. Inutile dire che da quel giorno scomparve dal giardino il corpo del reato.
Un luogo dove andavano spesso e volentieri a giocare era la soffitta, fatta di vari vani, nei quali si trovava un po’ di tutto. In soffitta finiva tutto ciò che in casa non serviva. Era piena soprattutto di casse d'ogni dimensione cha erano servite al trasferimento dal nostro mobilio da Idria a St Joachimsthal e vanivano conservate per altri eventuali trasferimenti. Alcune erano vuote, altre piu o meno piene della "roba per l'inverno" - capotti, vestiti, coperte e piumini.
Un giorno che ci eravamo calati dentro in una di queste, piena di piumini, sentendoci chiamati dalla mamma, ci venne la peregrina idea di farle uno scherzo. Invece di rispondere ai suoi richiami, ci siamo calati sulla testa il coperchio della cassa rimanendovi dentro zitti, zitti. Vuol per il caldo vuoi per la mancanza di una regolare ventilazione, abbiamo finito coll'addormentarci profondamente. Mamma, non trovandoci, fù presa dal panico e mobilitò tutto il rione alla nostra ricerca. Pare ci sia voluto molto tempo prima che a qualcuno fosse venuta l'idea d'aprire la cassa. A parere di tutti abbiamo corso il pericolo di morire asfissiati. Per fortuna il nostro angelo custode ci ha salvati in tempo. Questo almeno il commento della mamma che vedeva angeli e diavoli dappertutto.
Un altro salvataggio da parte dell'angelo custode ci fu quando, ammalato di difterite, causa il cattivo funzionamento della stufa, la camera da letto nella qual ero stato lasciato solo venne invasa dal fumo. Ricordo che sognavo di nuvole su nuvole che mi schiacciavano. Era una sensazione che provavo e provo tutt'ora quando ho la febbre alta. Poi il risveglio in mezzo al fumo. Mi sentivo paralizzato. Chiamai la mamma disperatamente. La rivedo entrare nella stanza, aprire la finestra e strapparmi dal letto singhiozzando: "Um Gottes Willen! Um Gottes Willen! Jesus Maria! Jesus Maria!" ( Dio mio - Gesù Maria ) erano le frasi che mamma pronunciava ogni qualvolta veniva colta dal panico ed era disperata.
Ricordo pure che nella vecchia abitazione c'erano anche gli spiriti. Più precisamente l'anima dannata di un giovane che alcuni anni prima che noi venissimo ad abitarvi, s'era impiccato nel solaio ed ogni tanto sentiva il bisogno di farsi sentire. Naturalmente, come tutti gli spiriti che si rispettano, si faceva vivo solo di notte.
Ogni tanto mamma si confidava colla donna di servizio, che si chiamava Fanny, sui strani fenomeni che si verificavano dopo mezzanotte. Una mattina le raccontò, molto agitata, che aveva trovata la tavola in camera da pranzo in gran disordine mentre era sicurissima di aver lasciato tutto in ordine prima di andare a letto. Rammento molto bene che quel giorno mamma e papà decisero di fare benedire l'abitazione. Venne chiamato per la bisogna lo stesso decano di cui ricordo peranco il nome:"Rreitenkopf“ (testa larga). Egli ebbe un gran successo perchè per molto tempo e casa mia di spiriti non se ne parlò più. Poi addirittura la loro esistenza finì coll'essere messa seriamente in dubbio.
Un bel mattino infatti, mamma raccontò a Fanny che quella notte erano stati svegliati da strani rumori provenienti dal salotto attiguo alla loro camera da letto. S'erano alzati, avevano accesa una candela, papà s'era armato della sciabola da parata che teneva nell'armadio assieme all'alta uniforme e così, mamma con in mano la candela e papà colla sciabola sguainata, pian pianino avevano coraggiosamente aperta la porta del salotto. Grande la sorpresa quando s’accorsero che un grosso ratto, spaventatissimo, cercava velocemente ci sottrarsi al loro assalto.
Debbo pero confessare che, per quanto ridimensionata, la credenza negli spiriti, la mamma non la perdette mai.
Altro ricordo, legato alla vecchia casa, fù il mio primo giorno ci scuola. Fu un giorno molto importante non solo per me, ma per tutta la famiglia. Quel mattino mamma s'occupò della mia persona più del solito. Dovevo fare bella figura. Papà di norma serio, era sorridente. Fù lui ad accompagnarmi.
Io naturalmente ero molto emozionato ed anche fiero. Da mesi mi sentivo dire che da allora in poi non sarei più stato un bambino "irresponsabile" ed infatti da quel giorno il senso di responsabilità mi colse e mi penetrò sempre più nelle ossa per perseguitarmi ossessivamente per tutta la vita.
Sulla porta della classe c'era il maestro che ci venne incontro. Parlò prima con papà poi m'accompagnò in classe assegnandomi un posto in prima fila. Altri bambini continuavano ad arrivare. Tutti accompagnati. Poi suonò la campana ed il maestro chiuse la porta. Qualcuno dei bambini cominciò a piangere ma poi, dopo il discorsetto che il maestro ci fece accettò rassegnato la situazione. Del resto non aveva altra scelta.
Oggi si parla molto dei handicappati. E’ diventato un grosso problema. Gli handicappati esistevano anche allora, solo che non si chiamavano "handicappati" ma “anormali“ e di loro tutti cercavano di parlarne il meno possibile.
Nella scuola elementare io avevo uno di questi per compagno. Aveva ripetuto per più anni la prima ed era stato promosso alla seconda per "anzianità". Lo ricordo perché un giorno si mise a giuocare in classe e rimproverato dalla maestra, le morsico la mano. Venne chiamato il direttore che gli diede dei sonori ceffone lo buttò fuori dalla classe.
Rimase sospeso per qualche giorno, poi riprese il suo posto come prima. Invece la povera maestrina, che era molto giovane e bella, venne sostituita con un'altra già avanti negli anni e tremendamente energica. Colla bacchetta in mano metteva sempre tutto e tutti a posto.
Oggi gli scolari sono degli intoccabili. Allora prendevano legnate non solo se facevano i discoli, ma anche se non avevano fatto il compito o non ricordavano ciò che a parere del maestro avremmo dovuto ricordare. Anch'io, pur essendo sempre stato nelle elementari, fra i primi, se non il primo della classe, ho provato più d'una volta la bacchetta sulle punte delle dita o per non aver fatto il compito o per non aver saputo rispondere a qualche domanda. Non mi risulta che ci sia mai stato qualche genitore a protestare contro questo sistema. Tutt'altro! Il maestro aveva sempre ragione. Anche quando esagerava, il che accadeva di sovente.
Quando dalla vecchia abitazione siamo passati alla nuova, avevamo per vicini di casa una famiglia che aveva tre figli uno normale e due anormali: un mongoloide ed un nano.
La famiglia viveva molto ritirata ed evitava, come meglio poteva, di mettere in mostra i due infelici; questi, almeno così mi pareva allora, sembravano dei rassegnati. Il mongoloide in vero ogni tanto diventava cattivo. L'altro invece sembrava non rendersi nessun conto della sua situazione; sorrideva spesso e volentieri come sono uso fare gli scemi. E tutti lo consideravano appunto tale.
Fra i nostri divertimenti c'era cure quello di fare i chierichetti (Ministranten). Per Pasqua p.es. attendevamo per ore il nostro turno davanti al santo sepolcro, eretto per l'occasione in fondo alla navata destra della chiesa. Il turno poi era di mezz'ora, sia per noi chierichetti, che per tutto questo periodo stavamo in ginocchio, sia per i due pompieri in alta uniforme che invece vi stavano rigidamente sull'attenti assieme ai due veterani (ex combattenti). Nelle grandi occasioni servivamo anche la Messa. Quello che, come chierichetti però ci impegnava di più erano i funerali. Lì erano in giuoco non soltanto la salvezza delle nostre anime, ma, quasi sempre, anche il guiderdone di due Heller o addirittura di due Kreuzer. Poi c’era anche ( e per noi forse sovra tutto) la parte spettacolare.
A St.Joachimsthal, che credo non avesse allora più di 4 -5 mila abitanti, un funerale era sempre un grande avvenimento. I funerali più imponenti erano naturalmente quelli dei minatori e specialmente di quelli morti per infortunio.
Avevano luogo quasi sempre nel tardo pomeriggio al calare delle tenebre. Vi partecipava praticamente tutta la popolazione senza distingione di ceto e censo. I minatori erano tutti in alta tenuta ed accompagnavano il feretro colle lampade (di carburo) accese e le picozze da parata sulle spalle.
Tutti andavano a-passo anche chi non era in divisa. La banda suonava per tutto il percorso, a brevi intervalli, melodiose e triste marce funebri. La carrozza che portava la bara,era monumentale e riccamente addobbata. Veniva trainata da due o quattro cavalli bardati di naro. Giunti al cimitero tutti si fermavano. ll feretro, tolto dalla carrozza, veniva portato a spalle verso la tomba, mentre la banda si fermava fuori dal camposanto. Li, nel più rispettoso silenzio dei partecipanti, interrotto solo dal pianfio soffocato dei congiunti, dopo l'ultima benedizione ed il saluto “Glück auf!", scandito ad alta voce dai minatori, la bara veniva calata lentamente nella fossa, mentre la banda da fuori delle mure intonava sommessamente l'ultimo canto: Es ist bestimmt im Gottes Rat... Erano momenti di profonda commozione per tutti, commozione che ha lasciato un indelebile solco nel mio subcosciente.
A cerimonia finita, i minatori, sempre perfettamente inquadrati, banda in testa, bandiera al vento, ritornavano in città a suon di marce allegre e gaie come se tornassero da una festa. La vita voltava le spalle alla morte riprendendo beffardamente il suo corso di sempre.
Tornato dalla guerra, ci fù un periodo in cui morti e funerali, cimiteri sconnessi e chiese senza uscita, mi rincorsero nei sogni finché non ritornai a Jãchymov come turista nel 1961 - 1964 ove entrambe le volte andai anche a vedere il vecchio camposanto. Non vi trovai tombe con nomi conosciuti ma in compenso morti ed i funerali, i cimiteri sconnessi e le chiese senza uscita, uscirono dai miei sogni.
Un altro evento che colpì la mia fantasia e che a distanza di tanti anni e ancora vivo nella mia mente, mi riporta nuovamente sulla soglia del vecchio camposanto. Fù dopo un funerale, al quale avevo partecipato come chierichetto assieme a Bruno, che uno della banda, che entrambi conoscevamo molto bene, ci salutò con un sorriso alquanto enigmatico per poi rivolgersi ad un suo compagno colle parole, proferite ad alta voce "allora ci rivediamo per le otto". Doveva rimanere un segreto, ma strada faccendo venimmo a sapere che quella sera, alle otto, i minatori avrebbero dato l'addio a papà che era stato ufficialmente trasferito a Idria.
Dopo il crollo dell'impero austro ungarico infatti, papà aveva optato per l'Italia. Ma anche allora la burocrazia era molto lenta ed il permesso per il suo rientro in patria gli era giunto solo pochi giorni prima e precisamente il 14 ottobre 1920. La notizia della sua imminente partenza s'era subito diffusa e quella sera appunto, i suoi minatori volevano salutarlo alla loro maniera.
Perchè papà non fosse colto alla sprovvista, appena rientrati dal funerale, abbiamo subito raccontato a mamma quanto ci era stato confidato. Lei ci assicuro che papà era già stato messo al corrente di tutto in "segreto" e che aveva anche preparato per l'occasíone un breve discorso. Ci preparò la cena ancora prima che egli arrivasse e ci mandò a letto con mille raccomandazioni di non farci più vedere. Si capiva che era molto agitata.
Ugo che aveva allora circa quattro anni, s'addormentò tranquillamente mentre noi due, eccitatissimi, invece di rimanere sotto le coperte, ci affacciammo di continuo alle finestre della camera da letto che davano sulla strada, come quelle dell'attigua camera di soggiorno nella quale papà e mamma attendevano gli eventi.
Non erano passate da molto le otto che la nostra emozione giunse al culmine. Era una bellissima serata d'autunno col cielo pieno di stelle ed ecco che da lontano ci giunse finalmente il suono della banda e poco dopo apparve anche il corteo. Un enorme rettangolo d'oro in fiamme seguito da una lunga doppia fila di luci d'argento verso l'esterno e d'oro pallido verso l'interno che s'avvicinava ondeggiante a rito di marcia. I riflessi delle fiaccole che ogni suonatore aveva accanto a sè davano infatti questa magica impressione, mentre le lampade ardenti portate dai minatori che portavano pure le picozze da parata, completavano questa fantastica visione che non dimenticherò mai.
Giunto davanti a casa nostra, il corteo si fermò e prese posizione frontale. La banda intonò una marcia che allora mi parve la più bella marcia del mondo. Poi una deputazione di tre minatori con a capo lo Steiger (mastro minatore) salì da noi per salutare papà a nome di tutti.
Sebbene ci fosse stato proibito d'entrare nella stanza da soggiorno dove l’incotro si stava svolgendo, non potemmo fare a meno di aprire furtivamente la porta per curiosare. Papà e mamma se ne accorsero subito ma invece di sgridarci, come temevamo, ci sorrisero affettuosamente ed anche quelli della deputazione ci guadarono sorridendo. Vistici scoperti richiudemmo subito l'uscio per riaprirlo di nuovo poco dopo che la rappresentanza se ne era andata. Vedemmo papà affacciato alla finestra che parlava ai suoi uomini e mamma in ginocchio accanto a lui a fargli da suggeritrice col testo del discorso in mano. Questa volta nessuno s'accorse di noi che richiudevamo subito la porta per riportarci sulle finestre della camera da letto. Quando papà ebbe finito di parlare ci fù da parte dei minatori il tradizionale saluto alla voce:"Glück auf!". Quindi la banda intonò un altro pezzo, finito il quale, pochi secchi comandi e tutti perfettamente inquadrati ripresero a suon di marce la via del ritorno.
Passando davanti alla Direzione ove abitava pure il Direttore della miniera ing. Step, essi non si fermarono, come era probabilente nelle attese delle autorità politiche neo costituite, perche nei giorni successivi le critiche non sono'mancate. Ormai Jàchymov era cecoslovacca e l'ing. Step, natio di Praga era appunto diventato sul posto uno dei più autorevoli esponenti di quella nazione. Per me le critiche allora non avevano alcuna importanza, anche perché non ero in grado di valutarne la portata. Per me contava soltanto l'omaggio reso a papà. Ero fiero di lui e felice di poter constatare quanto fosse benvoluto e stimato da tutti.
Lui "l'Italiener Katzelmacher".
Papà e mamma si sono sposati a Weipert in Sassonia addì 29.4.1908. Si erano conosciuti a Raibl dove papà aveva iniziato la sua carriera di ingegnere minerario come "Bergeleve" (mastro montanistico) e "Bergverwalter" (amministratore montanistico) nel giugno del l906.
A quell’epoca la miniera di Raibl era ancora divisa in "statale” (Raibl I) "Privata" (Raibl II o Henkel Donnersmark). Fino al 1906 direttore responsabile di quest'ultima era nonno “Karl".
Quando papà arrivò a Raibl, mamma aveva circa diciassette anni. A dodici venne mandata nell'educandato delle suore del Crocefisso (Kreuzschwestern) a Loest in Westfalia dove rimase ininterrottamente per cinque anni. Quando ne uscì, il nonno che era andato ad accoglierla alla stazione, quasi non la riconobbe più. Mamma raccontava spesso che quell'incontro fra lei e suo padre era stato molto commovente.
Era a quei tempi usanza nella buona borghesia inviare le ragazze in collegi, normalmente dirette da religiose, perchè imparassero tutto ciò che a quell'epoca una ragazza da marito doveva sapere. Così oltre al galateo le insegnavano la musica, il cucito, il ricamo e via dicendo.
Fù proprio nel 1906 che nella miniera diretta dal nonno, accadde una disgrazia che costò la vita a cinque minatori.
Pare che il disastro si sia verificato durante il collaudo d'un ascensore, per l'inosservanza d'un ordine dato dal nonno e non eseguito da chi di dovere. Comunque come responsabile di tutti i servizi, egli venne processato e licenziato. Come si siano svolti esattamente i fatti non lo so. Mamma ci avrà certamente raccontato tutto, ma allora le vicende del nonno ci interessavano molto relativamente e così ora sono passate nel dimenticatoio.
So di certo che quando mamma si sposò, i nonni risiedevano a Ehrenfriedersdorf dove molto probabilmente il nonno aveva nel frattempo di nuovo trovato lavoro.
A quell’epoca la miniera di Raibl era ancora divisa in "statale” (Raibl I) "Privata" (Raibl II o Henkel Donnersmark). Fino al 1906 direttore responsabile di quest'ultima era nonno “Karl".
Quando papà arrivò a Raibl, mamma aveva circa diciassette anni. A dodici venne mandata nell'educandato delle suore del Crocefisso (Kreuzschwestern) a Loest in Westfalia dove rimase ininterrottamente per cinque anni. Quando ne uscì, il nonno che era andato ad accoglierla alla stazione, quasi non la riconobbe più. Mamma raccontava spesso che quell'incontro fra lei e suo padre era stato molto commovente.
Era a quei tempi usanza nella buona borghesia inviare le ragazze in collegi, normalmente dirette da religiose, perchè imparassero tutto ciò che a quell'epoca una ragazza da marito doveva sapere. Così oltre al galateo le insegnavano la musica, il cucito, il ricamo e via dicendo.
Fù proprio nel 1906 che nella miniera diretta dal nonno, accadde una disgrazia che costò la vita a cinque minatori.
Pare che il disastro si sia verificato durante il collaudo d'un ascensore, per l'inosservanza d'un ordine dato dal nonno e non eseguito da chi di dovere. Comunque come responsabile di tutti i servizi, egli venne processato e licenziato. Come si siano svolti esattamente i fatti non lo so. Mamma ci avrà certamente raccontato tutto, ma allora le vicende del nonno ci interessavano molto relativamente e così ora sono passate nel dimenticatoio.
So di certo che quando mamma si sposò, i nonni risiedevano a Ehrenfriedersdorf dove molto probabilmente il nonno aveva nel frattempo di nuovo trovato lavoro.
So che nel 1909 il nonno era di nuovo direttore di una miniera a Taso (Thasos), isola del mare Egeo, allora sotto dominio turco. So anche di certo che nel l9l2, quando Taso tornò a fare parte della Grecia, il nonno venne nuovanente a trovarsi senza lavoro.
Poco dopo nel 1913 acquistò in proprio una miniera in Ungheria e precisamente a Jaszo, che a qanto mi e dato di sapere, rendeva molto bene.
Nel 1917 comprò la villa in Vöcklabruk, ove finalnente diede una definitiva residenza alla famiglia.
Nel 1920 o l92l, dopo che in Ungheria s'era affermato il comunismo con Bela Kuhn, si vide costretto a vendere la miniera ed a lasciare il paese. Tra inflazione e fallimenti che seguirono il crollo dell'impero austro-ungarico, le ricchezze accumulate si dissolsero ben presto come la neve al sole. Si vide così costretto ad impiegarsi presso altre imrrese, ultima una miniera di bauxite presso Albona in Istria. Ivi, dopo circa due anni di servizio, un giorno, mentre ritornava da Pola, dove assieme all'autista aveva prelevato dalla Banca i soldi per la paga dovuta ai minatori, venne assalito da cinque banditi capeggiati dal tristemente famoso Collarig e derubato persino degli oggetti personali. Durante la notte venne colto da infarto e ricoverato d'urgenza all'ospedale. Se la cavò, ma divenne inabile al lavoro. Mori in Vöcklabruck il 2I dicembre 1936 di paralisi cardiaca all'età di 69 anni.
Mamma aveva molti fratelli: Karl - Paul - Otto – Wílli - Anna - Agnes - Tini - Martha - più altri tre che morirono poco dopo essere nati e di cui non conosco nè sesso nè nome.
Di Karl, figlio di primo letto del nonno che era rimasto vedovo molto presto, so che aveva seguito il nonno in Ungheria ed era rimasto con lui fin quando entrambi non si videro costretti a lasciare il paese. Si trasferì in Boemia a Marienbad dove da minatore si trasformò in agricoltore. Vi si sposò con una tedesca del luogo nel 1935 e nel 1945 venne espulso dalla Cecoslovacchia con moglie e figlie, una di due anni (Brigitte) e l'altra di tre mesi (Criste). Fu loro concesso di portarsi appresso solo due valige. Tutti i loro beni mobili ed immobili furono requisiti dallo Stato. Si rifuggiarono in un piccolo paese della Baviera dove, già sessantaduenne, si rifece una nuova esistenza.
Di Paul so poco niente. Non l'ho mai incontrato. So, per sentito dire, che voleva fare il prete. Poi, colpito da una freccia di Cupido, dio dell'amore, avrebbe rinunciato ai sacri paramenti per convolare a giuste nozze. Ma non so quando nè con chi.
Di Otto so che era affetto da tubercolosi e che anche la sua esistenza terrena ebbe breve durata.
Durante la permanenza del nonno a Thaso, Paul ed Otto frequentarono la scuola francese di Salonico.
Willi invece l'ho conosciuto a St.Joachimsthal ove venne a trovare la mamma poco prima che scoppiasse la prima guerra mondiale. Era il fratello prediletto della mamma e nello stesso tempo la pecora nera della famiglia. Era simpaticissimo, generoso e molto vivace ma poco ubbidiente. Per questo il nonno lo aveva mandato a fare il servizio militare di leva nella marina da guerra germanica, nota in tutto il mondo per la ferrea disciplina che vi imperava. Era imbarcato sulla S.M.S. Nassau. A mamma non andava molto a genio che suo fratello fosse stato mandato nella marina militare. Difatti, parlando di lui, diceva sempre: il “povero Willi". Quando venne a trovarci in divisa da marinaio, che gli stava a pennello, si dimostrò però molto orgogliosa di lui.
Nessuno di noi ebbe noi più occasione di rivederlo. A guerra finita rimase ad Amburgo dove si sposò e dove il nonno gli comperò un negozio d'abbigliamento. Ma il "povero Willi" sembra non si sia dimostrato molto abile nel ramo. Sotto le armi aveva imparato a dire sempre "sì" e come commerciante non seppe poi più dire "no".
Ricordo molto bene Agnes e Tini (Clementine) che nel periodo in cui il nonno era in Ungheria, frequentavano un istituto di religiose a Salisburgo e durante le vacanze venivano da noi a St.Joachimsthal. Questo per tre anni di seguito, finchè cioè il nonno non scelse per residenza Vocklabruck.
Erano d'una bontà e dolcezza incredibile. Nessuno di noi perciò si meraviglio quado un bel giorno arrivò la notizia che tutt'e due si erano fatte suore. Entrate nell'ordine delle francescane, partirono poco dopo per l'India come missionarie. In India però Tini non ci arrivò mai. Giunta a Napoli s'ammalò e dovette rientrare alla casa madre in Svizzera.
Ritentò il viaggio una seconda volta col medesimo risultato. A Napoli fù nuovamente bloccata da non so quale male e dovette pertanto rinunciare per sempre all'India. Rientrata in Svizzera, Tini - Merè Maria Hildelita , nata il 10 genn. l898, fù assegnata ad un asilo d'infanzia, prima in Germania e poi in Francia. Prima del crollo venne nuovamente richiamata a Friburgo, dove morì in età piuttosto avanzata.
Agnes - Madre Maria Frieda di Gesù, dopo circa due mesi di viaggio, raggiunse finalmente la missione di St.Iose Convent di Chanta - Ywa - Yeu P.M. in Birmania ove morì all'età di 41 anni.
Anna, di due anni più vecchia di mamma, era stata a sua volta per due o tre anni in collegio a Loest. Anche lei aveva conosciuto il suo futuro sposo, Robert Schwendtbauer, a Raibl, dove, come papà, era ingegniere alla miniera statale.
Lui, però, non cambio mai sede. Vi iniziò la sua carriera come "Bergeleve" ed ivi la concluse come direttore. Una volta pensionato si trasferì con zia Anna a Tarvisio, dove pochi anni dopo morì di broncopolmonite. Fù sepolto per suo espresso desiderio, a Raibl.
Zia Anna rimase ancora per molti anni in Tarvisio. Infine si trasferì a Roma da sua figlia Hilde che nel frattempo s'era sposata con Dorigo, aiuto chirurgo al policlinico dell'Università, già medico condotto di Tarvisio. Li mori ultraottantenne.
Poco dopo nel 1913 acquistò in proprio una miniera in Ungheria e precisamente a Jaszo, che a qanto mi e dato di sapere, rendeva molto bene.
Nel 1917 comprò la villa in Vöcklabruk, ove finalnente diede una definitiva residenza alla famiglia.
Nel 1920 o l92l, dopo che in Ungheria s'era affermato il comunismo con Bela Kuhn, si vide costretto a vendere la miniera ed a lasciare il paese. Tra inflazione e fallimenti che seguirono il crollo dell'impero austro-ungarico, le ricchezze accumulate si dissolsero ben presto come la neve al sole. Si vide così costretto ad impiegarsi presso altre imrrese, ultima una miniera di bauxite presso Albona in Istria. Ivi, dopo circa due anni di servizio, un giorno, mentre ritornava da Pola, dove assieme all'autista aveva prelevato dalla Banca i soldi per la paga dovuta ai minatori, venne assalito da cinque banditi capeggiati dal tristemente famoso Collarig e derubato persino degli oggetti personali. Durante la notte venne colto da infarto e ricoverato d'urgenza all'ospedale. Se la cavò, ma divenne inabile al lavoro. Mori in Vöcklabruck il 2I dicembre 1936 di paralisi cardiaca all'età di 69 anni.
Mamma aveva molti fratelli: Karl - Paul - Otto – Wílli - Anna - Agnes - Tini - Martha - più altri tre che morirono poco dopo essere nati e di cui non conosco nè sesso nè nome.
Di Karl, figlio di primo letto del nonno che era rimasto vedovo molto presto, so che aveva seguito il nonno in Ungheria ed era rimasto con lui fin quando entrambi non si videro costretti a lasciare il paese. Si trasferì in Boemia a Marienbad dove da minatore si trasformò in agricoltore. Vi si sposò con una tedesca del luogo nel 1935 e nel 1945 venne espulso dalla Cecoslovacchia con moglie e figlie, una di due anni (Brigitte) e l'altra di tre mesi (Criste). Fu loro concesso di portarsi appresso solo due valige. Tutti i loro beni mobili ed immobili furono requisiti dallo Stato. Si rifuggiarono in un piccolo paese della Baviera dove, già sessantaduenne, si rifece una nuova esistenza.
Di Paul so poco niente. Non l'ho mai incontrato. So, per sentito dire, che voleva fare il prete. Poi, colpito da una freccia di Cupido, dio dell'amore, avrebbe rinunciato ai sacri paramenti per convolare a giuste nozze. Ma non so quando nè con chi.
Di Otto so che era affetto da tubercolosi e che anche la sua esistenza terrena ebbe breve durata.
Durante la permanenza del nonno a Thaso, Paul ed Otto frequentarono la scuola francese di Salonico.
Willi invece l'ho conosciuto a St.Joachimsthal ove venne a trovare la mamma poco prima che scoppiasse la prima guerra mondiale. Era il fratello prediletto della mamma e nello stesso tempo la pecora nera della famiglia. Era simpaticissimo, generoso e molto vivace ma poco ubbidiente. Per questo il nonno lo aveva mandato a fare il servizio militare di leva nella marina da guerra germanica, nota in tutto il mondo per la ferrea disciplina che vi imperava. Era imbarcato sulla S.M.S. Nassau. A mamma non andava molto a genio che suo fratello fosse stato mandato nella marina militare. Difatti, parlando di lui, diceva sempre: il “povero Willi". Quando venne a trovarci in divisa da marinaio, che gli stava a pennello, si dimostrò però molto orgogliosa di lui.
Nessuno di noi ebbe noi più occasione di rivederlo. A guerra finita rimase ad Amburgo dove si sposò e dove il nonno gli comperò un negozio d'abbigliamento. Ma il "povero Willi" sembra non si sia dimostrato molto abile nel ramo. Sotto le armi aveva imparato a dire sempre "sì" e come commerciante non seppe poi più dire "no".
Ricordo molto bene Agnes e Tini (Clementine) che nel periodo in cui il nonno era in Ungheria, frequentavano un istituto di religiose a Salisburgo e durante le vacanze venivano da noi a St.Joachimsthal. Questo per tre anni di seguito, finchè cioè il nonno non scelse per residenza Vocklabruck.
Erano d'una bontà e dolcezza incredibile. Nessuno di noi perciò si meraviglio quado un bel giorno arrivò la notizia che tutt'e due si erano fatte suore. Entrate nell'ordine delle francescane, partirono poco dopo per l'India come missionarie. In India però Tini non ci arrivò mai. Giunta a Napoli s'ammalò e dovette rientrare alla casa madre in Svizzera.
Ritentò il viaggio una seconda volta col medesimo risultato. A Napoli fù nuovamente bloccata da non so quale male e dovette pertanto rinunciare per sempre all'India. Rientrata in Svizzera, Tini - Merè Maria Hildelita , nata il 10 genn. l898, fù assegnata ad un asilo d'infanzia, prima in Germania e poi in Francia. Prima del crollo venne nuovamente richiamata a Friburgo, dove morì in età piuttosto avanzata.
Agnes - Madre Maria Frieda di Gesù, dopo circa due mesi di viaggio, raggiunse finalmente la missione di St.Iose Convent di Chanta - Ywa - Yeu P.M. in Birmania ove morì all'età di 41 anni.
Anna, di due anni più vecchia di mamma, era stata a sua volta per due o tre anni in collegio a Loest. Anche lei aveva conosciuto il suo futuro sposo, Robert Schwendtbauer, a Raibl, dove, come papà, era ingegniere alla miniera statale.
Lui, però, non cambio mai sede. Vi iniziò la sua carriera come "Bergeleve" ed ivi la concluse come direttore. Una volta pensionato si trasferì con zia Anna a Tarvisio, dove pochi anni dopo morì di broncopolmonite. Fù sepolto per suo espresso desiderio, a Raibl.
Zia Anna rimase ancora per molti anni in Tarvisio. Infine si trasferì a Roma da sua figlia Hilde che nel frattempo s'era sposata con Dorigo, aiuto chirurgo al policlinico dell'Università, già medico condotto di Tarvisio. Li mori ultraottantenne.
Martha, la più giovane delle sorelle di mamma ( di solo due - tre anni più vecchia di me ), è sposata col dott. Erich Czerny, notaio di Frankenmarkt, ora in pensione, è l'unica Becker della famiglia ancora vivente. Non avendo figli lei ed Erich se la passano da buoni vecchiatti un pò fra le mura domestiche, un pò in una casa di riposo per vecchi autosufficenti ed un pò all’ospedale in attesa che Dio li chiami a sé. Sono profondamente religiosi.
Se mamma aveva molti fratelli, papà aveva solamente una sorella: zia Ida, nata in Trieste il 15.9.l875, quindi quattro anni più vecchia di lui, che era nato, sempre in Trieste il 16.2.1879.
In-quanto al nonno che, come quello materno, si chiamava Carlo, non so gran che. Nato in Fiumicello il 2.6.l841, s'era trasferito molto giovane a Trieste dove era entrato al Lloyd come meccanico navale e dove il 2.9.1869 aveva sposato nella chiesa della "Beata Vergine del Soccorso", nonna Carlotta.
So che, come allora tutti i marinai, era più in alto mare che a casa. Secondo zia Ida sarebbe stato messo in pensione, come capitano di lungo corso, prima del previsto, essendo diventato inabile al lavoro in seguito ad una caduta nella stiva della sua nave, che gli causò un grave trauma cranico.
Ritornato nella sua natia Fiumicello, vi mori nel 1901 ed ancora oggi vi si trova la sua tomba.
Nonna Carlotta era figlia di Leopoldo Zigoi (Cigoi) meccanico navale come il nonno e sua madre era una Rupnik i cui antenati pare provenissero dalla cosidetta "terra dei Cicci" cioè dall'entroterra carsico dell'Istria. Una volta era molto in voga il detto:"Cicci no xe per barca e barca no xe per Cicci", volendo con ciò significare che gli Istriani della costa erano marinai (d'origine veneta) e quelli dell'entroterra, contadini o boscaioli (d'origine slava).
Infatti nonna Carlotta, nata a Triste nel l849, pur non conoscendo altro idioma che il dialetto triestino, a Fiumicello la chiavavano la "slava". Forse più precisamente: "la scava".
La ricordo, sia pure vagamente, quando ero bambino sono stato a Ronchi e la ricordo ancora, sempre vagamente, quando profuga nel l9l5, venne con zia Ida a St.Joachimsthal dove rimase da noi un certo “lasso di tempo prima di trasferirsi, sempre con zia Ida a Gütenfeld nella bassa Carniola, per essere più vicina a zio Francesco il quale all'atto della dichiarazione di guerra dell’ltalia all'Austria, non aveva potuto lasciare il suo posto a Ronchi. Molti anni dopo, quando anche zio Francesco morì, nonna Carlotta e zia Ida si stabilirono da noi a Idria dove lei morì nel 1933.
Ricordo che quell’anno, finire le vacanze di Pasqua, prima di ripartire per Bologna dove frequentavo già il quarto anno di medicina, l'andai a salutare, come ero solito fare ogni volta che arrivavo o partivo da casa. La trovai seduta nella sua solita poltrona, apparentemente in buona salute. Ci scambiammo le solite frasi: - vegno a salutarte - torno a Bologna - come te sta? –ciao - e lei: - bravo Carletto - fatti onore - stamme ben - speriamo di rivederse -. Ma quando tornai la nonna non c'era più. Se ne era andata in punta di piedi, per sempre. Non aveva voluto che mi avvisassero che stava male per non turbare i miei studi. Così la sua morte mi venne tenuta nascosta ed a me, suo begnamino, fù negato d'accompagnarla alla sua ultima dimora. Rimasi molto male ed ancora oggi pensandola mi sento invaso da una profonda tristezza.
Povera nonna! Non deve aver avuta vita facile col marito sempre lontano e due figli da tirare su. Secondo mamma era sempre stata attiva e molto energica. Credo sia stato senzaltro cosi; ma io la ricordo ben diversamente. La ricordo ormai sotto il peso degli anni, sempre taciturna, chiusa in sé stessa, schiva di tutto e di tutti.
Non ricordo d'averla mai vista sorridere. Non l'ho mai vista uscire di casa. Si dava da fare soltanto in cucina. Per tutto il resto ci pensava zia Ida che invece era molto vivace ed intraprendente.
Papà era molto legato alla nonna, i rapporti tra mamma e suocera erano puramente formali. Questo non solo per motivi di incomunicabilità (la nonna, come già detto, parlava solo l'italiano e la mamma solo il tedesco), ma anche per diversità di carattere e di cultura.
In quanto ai rapporti fra mamma e zia Ida, questi erano di palese incomprensione. Il problema della lingua non si poneva perchè, come già ricordato, la zia parlava il tedesco correntemente. Le due donne non si capivano semplicemente perchè non volevano capirsi.
Dirò, per inciso, che dopo il nostro ritorno a Idria nel 1921, mamma fece del suo meglio per imparare l'italiano. Ma questo non cambiò granchè.
Ad Idria quasi tutti gli indigeni più evoluti sapevano parlare il tedesco ed in casa si continuava a parlare con mamma nella lingua dei suoi avi.
Comunque, dissensi ed incomprensioni, non sfociavano mai in litigi. Per quanto rinvanghi nella memoria, non ricordo che in casa nostra alcuno abbia mai alzato la voce.
Per quanto riguarda i rapporti fra mamma e papà, non ricordo un solo battibecco. E pure escludo che fra loro non siano mai sorte divergenze. Avevano caratteri troppo diversi. Era semplicemente questione di educazione. Nella buona società d'allora era inammissibile che i genitori litigassero alla presenza dei figli e questa norma veniva sempre ed in ogni circostanza scrupolosamente osservata.
Se a Idria papà conduceva una vita molto riservata - ufficio casa - casa ufficio, a St.Joachimsthal è sempre stato un uomo molto brillante, d'indole gioviale, aperto e molto comprensivo. Sapeva farsi rispettare e benvolere da tutti. Partecipava con mamma a tutte le feste. Non solo quelle ufficiali, alle quali prendeva parte sempre in divisa, ma anche alle altre manifestazioni come concerti, teatro, balli e via dicendo, cui interveniva ovviamente in abiti civili e se questi avevano luogo al pomeriggio era concesso anche a noi ragazzi di prendervi parte.
Allora mi colpiva sempre molto il fatto che appena entrava in sala, in divisa o in borghese, tutti i presenti si alzavano in piedi ed il minatore più vicino a lui lo salutava rispettosamente col tradizionale saluto dei minatori:"Glük auf” chè (tradotto vuol dire "In alto la fortuna", al quale rispondeva allo stesso modo.
Ricordo anche che in una di quelle occasioni, mentre tutti riprendevano il posto da sedere, un minatore buontempone, tolse allo "Steiger" che gli era davanti, la sedia di sotto, facendolo cadere rumorosamente a terra. Tutti risero di gusto e lo "Steiger" (titolo che nella gerarchia dei minatori risponde circa al grado di maresciallo), piuttosto imbarazzato, fece buon viso a cattivo giuoco e sorrise a sua volta. Niente imprecazioni e niente ripicche.
Altri tempi ed altra mentalità!
Se mamma aveva molti fratelli, papà aveva solamente una sorella: zia Ida, nata in Trieste il 15.9.l875, quindi quattro anni più vecchia di lui, che era nato, sempre in Trieste il 16.2.1879.
In-quanto al nonno che, come quello materno, si chiamava Carlo, non so gran che. Nato in Fiumicello il 2.6.l841, s'era trasferito molto giovane a Trieste dove era entrato al Lloyd come meccanico navale e dove il 2.9.1869 aveva sposato nella chiesa della "Beata Vergine del Soccorso", nonna Carlotta.
So che, come allora tutti i marinai, era più in alto mare che a casa. Secondo zia Ida sarebbe stato messo in pensione, come capitano di lungo corso, prima del previsto, essendo diventato inabile al lavoro in seguito ad una caduta nella stiva della sua nave, che gli causò un grave trauma cranico.
Ritornato nella sua natia Fiumicello, vi mori nel 1901 ed ancora oggi vi si trova la sua tomba.
Nonna Carlotta era figlia di Leopoldo Zigoi (Cigoi) meccanico navale come il nonno e sua madre era una Rupnik i cui antenati pare provenissero dalla cosidetta "terra dei Cicci" cioè dall'entroterra carsico dell'Istria. Una volta era molto in voga il detto:"Cicci no xe per barca e barca no xe per Cicci", volendo con ciò significare che gli Istriani della costa erano marinai (d'origine veneta) e quelli dell'entroterra, contadini o boscaioli (d'origine slava).
Infatti nonna Carlotta, nata a Triste nel l849, pur non conoscendo altro idioma che il dialetto triestino, a Fiumicello la chiavavano la "slava". Forse più precisamente: "la scava".
La ricordo, sia pure vagamente, quando ero bambino sono stato a Ronchi e la ricordo ancora, sempre vagamente, quando profuga nel l9l5, venne con zia Ida a St.Joachimsthal dove rimase da noi un certo “lasso di tempo prima di trasferirsi, sempre con zia Ida a Gütenfeld nella bassa Carniola, per essere più vicina a zio Francesco il quale all'atto della dichiarazione di guerra dell’ltalia all'Austria, non aveva potuto lasciare il suo posto a Ronchi. Molti anni dopo, quando anche zio Francesco morì, nonna Carlotta e zia Ida si stabilirono da noi a Idria dove lei morì nel 1933.
Ricordo che quell’anno, finire le vacanze di Pasqua, prima di ripartire per Bologna dove frequentavo già il quarto anno di medicina, l'andai a salutare, come ero solito fare ogni volta che arrivavo o partivo da casa. La trovai seduta nella sua solita poltrona, apparentemente in buona salute. Ci scambiammo le solite frasi: - vegno a salutarte - torno a Bologna - come te sta? –ciao - e lei: - bravo Carletto - fatti onore - stamme ben - speriamo di rivederse -. Ma quando tornai la nonna non c'era più. Se ne era andata in punta di piedi, per sempre. Non aveva voluto che mi avvisassero che stava male per non turbare i miei studi. Così la sua morte mi venne tenuta nascosta ed a me, suo begnamino, fù negato d'accompagnarla alla sua ultima dimora. Rimasi molto male ed ancora oggi pensandola mi sento invaso da una profonda tristezza.
Povera nonna! Non deve aver avuta vita facile col marito sempre lontano e due figli da tirare su. Secondo mamma era sempre stata attiva e molto energica. Credo sia stato senzaltro cosi; ma io la ricordo ben diversamente. La ricordo ormai sotto il peso degli anni, sempre taciturna, chiusa in sé stessa, schiva di tutto e di tutti.
Non ricordo d'averla mai vista sorridere. Non l'ho mai vista uscire di casa. Si dava da fare soltanto in cucina. Per tutto il resto ci pensava zia Ida che invece era molto vivace ed intraprendente.
Papà era molto legato alla nonna, i rapporti tra mamma e suocera erano puramente formali. Questo non solo per motivi di incomunicabilità (la nonna, come già detto, parlava solo l'italiano e la mamma solo il tedesco), ma anche per diversità di carattere e di cultura.
In quanto ai rapporti fra mamma e zia Ida, questi erano di palese incomprensione. Il problema della lingua non si poneva perchè, come già ricordato, la zia parlava il tedesco correntemente. Le due donne non si capivano semplicemente perchè non volevano capirsi.
Dirò, per inciso, che dopo il nostro ritorno a Idria nel 1921, mamma fece del suo meglio per imparare l'italiano. Ma questo non cambiò granchè.
Ad Idria quasi tutti gli indigeni più evoluti sapevano parlare il tedesco ed in casa si continuava a parlare con mamma nella lingua dei suoi avi.
Comunque, dissensi ed incomprensioni, non sfociavano mai in litigi. Per quanto rinvanghi nella memoria, non ricordo che in casa nostra alcuno abbia mai alzato la voce.
Per quanto riguarda i rapporti fra mamma e papà, non ricordo un solo battibecco. E pure escludo che fra loro non siano mai sorte divergenze. Avevano caratteri troppo diversi. Era semplicemente questione di educazione. Nella buona società d'allora era inammissibile che i genitori litigassero alla presenza dei figli e questa norma veniva sempre ed in ogni circostanza scrupolosamente osservata.
Se a Idria papà conduceva una vita molto riservata - ufficio casa - casa ufficio, a St.Joachimsthal è sempre stato un uomo molto brillante, d'indole gioviale, aperto e molto comprensivo. Sapeva farsi rispettare e benvolere da tutti. Partecipava con mamma a tutte le feste. Non solo quelle ufficiali, alle quali prendeva parte sempre in divisa, ma anche alle altre manifestazioni come concerti, teatro, balli e via dicendo, cui interveniva ovviamente in abiti civili e se questi avevano luogo al pomeriggio era concesso anche a noi ragazzi di prendervi parte.
Allora mi colpiva sempre molto il fatto che appena entrava in sala, in divisa o in borghese, tutti i presenti si alzavano in piedi ed il minatore più vicino a lui lo salutava rispettosamente col tradizionale saluto dei minatori:"Glük auf” chè (tradotto vuol dire "In alto la fortuna", al quale rispondeva allo stesso modo.
Ricordo anche che in una di quelle occasioni, mentre tutti riprendevano il posto da sedere, un minatore buontempone, tolse allo "Steiger" che gli era davanti, la sedia di sotto, facendolo cadere rumorosamente a terra. Tutti risero di gusto e lo "Steiger" (titolo che nella gerarchia dei minatori risponde circa al grado di maresciallo), piuttosto imbarazzato, fece buon viso a cattivo giuoco e sorrise a sua volta. Niente imprecazioni e niente ripicche.
Altri tempi ed altra mentalità!
Papà sapeva suonare il violino, la chitarra ed il mandolino ed aveva anche una bella voce, come pure la mamma. Di sera, nei primi-anni, molto spesso cantavano insieme e quando venivano a trovarci l'ing. Zmiral con relativa consorte e figlioletta, per la quale, fra parentesi, io nutrivo una particolare antipatia, i duetti diventavano di sovente quartettí, sulla cui validità artistica peraltro non saprei dare un giudizio obiettivo. A me non dispiacevano anche se papà diceva sempre alla mamma: "quei Zmiral però-sono piuttosto stonati". Molto probabilmente loro sapevano benissimo d'esserlo perchè prima di accettare l'invito, si facevano sembre molto pregare. All'occasione papà suonava normalmente la chitarra, ma quando gli si chiedeva di cantare canzoni italiane, i suoi a solo li accompagnava col mandolino.
In Austria il mandolino ed i maccaroni erano l'espressione più qualificante della cultura musicale e gastronomica italiana.
Mamma sapeva suonare il pianoforte. Ma a casa nostra non lo avevamo e quindi lei poteva dare saggio di questa sua virtù solo quando andava in visita dalla famiglia del direttore della miniera ing.Step che invece disponeva di un magnifico piano a coda. Lo suonava la loro figlia adottiva di nome Marscenka (non conosco il ceco perciò scrivo secondo pronuncia) che era coetanea di mamma e sua amica del cuore.
Queste visite in casa Sten le ricordo molto bene perchè per noi due, che mamma ci trascinava sempre dietro, erano una vera pena. Dovevamo dimostrare di essere molto educati e pertanto non fare questo nè quello, saper stare fermi seduti e non correre per la stanza e tanto meno bisticciarci, il che per noi era davvero molto difficile. Poi c'erano queste esibizioni al piano di Marscenka e mamma che non ci entusiasmavano per niente. Saranno state tutte due molto brave e senz'altro meritevoli delle lodi che raccoglievano da parte della signora Step, ma a noi due sarebbe piaciuto molto di più poter giocare liberamente sulla "Austurzhalde" o sul"Gabelsberg" o magari anche solo sulla strada.
A proposito di Marscanka debbo dire che la ricordo ancora oggi con molta simpatia perchè fù lei a regalarmi il mio primo album di francobolli. Uno Schaubek Universale. Eravamo nel 1915 o 19l6 circa, quando ancora ogni filatelico raccoglieva i francobolli di tutto il mondo. Nell'album c'erano tutti gli antichi stati e colonie e se invece di regalarlo via a mia volta ad un compagno di scuola prima di lasciare Jàchymov me lo fossi tento caro, oggi sarei padrone di una bella fortuna.-"se"!
Papà faceva anche parte d'un coro che aveva sede nello stesso locale in cui si trovava la biblioteca. Di questo coro però s'è sempre sentito parlare molto poco. Evidentemente svolgeva un'attività quanto mai limitata. Penso sopratutto per aver avuto solo pochi aderenti. Infatti non era pensabile che in un'associazione privata, riservata all'alta e media borghesia, entrassero appartenenti al proletariato. Quindi in una cittadina di 4 – 5 mila abitanti, quasi tutti operai, questo coro non poteva essere stato che un complesso ridotto all'osso.
Molto nota invece era l'orchestra che durante l'estate suonava al Kurpank per gli ospiti dello stabilimento di cura e che era diretta dal maestro Kurz. Secondo papà Kurz era un musicista molto dotato. Insegnava alla Bürgerschule ed aveva anche l'aspetto dell'artista. Era molto alto, magro e portava le lenti alla maniera d'allora, vale a dire senza stanghette. Sorrideva di rado e dava l'impressíone di essere un uomo molto serio. A quei tempi, in verità, tutti i maestri dovevano sembrare molto seri e fare sempre la faccia "feruce", come se fossero tanti soldatini di re Franceschiello.
Il solo che ricordo facesse eccezione a questa regola era Glaser. Era il più giovane dei maestri della nostra scuola e tutt'altro che conformista. Sorrideva spesso e volentieri ed era sempre disponibile. Anche lui suonava ed insegnava il violino giacchè in Austria a quei tempi nelle scuole elementari era d'obbligo l'insegnamento del canto e quindi tutti i maestri dovevano saper suonare o l'armonium o il violino.
Dirò che le canzoni che ci venivano insegnate e che ricordo ancora oggi, erano melodiose e piene di poesia. Parlavano a noi bambini ingenui con semplicità ed esaltavano nei più grandi i sentimenti più nobili che albergano in fondo all'animo di ogni essere umano. Erano allegre, piane di brio, tristi e melodiose, e piene di nostalgia. Parlavano di fede e fedeltà, di cameratismo e d'amore per la famiglia e per la patria, di coraggio e rassegnazione, di morte e di speranza ed hanno indubbiamente contribuito in misura notevole alla formazione del mio "habitus mentis", d'estrazione decisamente teutonica.
Il complesso musicale più numeroso e popolare però era sul posto la banda dei minatori (Bergkapelle). Non c'era festa civile o religiosa alla quale non partecipasse. Il direttore della medesima, come già detto in precedenza, era un ceco e quindi aveva dato al complesso l'impostazione delle bande boeme che si differenziano dalle altre per il fatto che in esse il canto è prevalentemente affidato ai flicorni ed ai bombardini invece che alle cornette ed ai tromboni. Di questo particolare però, mi resí conto solo quando nel 1922 sono entrato a fare parte della banda del convitto "San Luígí". Prima d’allora mi era sfuggito mancando il confronto. Ora invece l'avverto immediatamente.
In Austria il mandolino ed i maccaroni erano l'espressione più qualificante della cultura musicale e gastronomica italiana.
Mamma sapeva suonare il pianoforte. Ma a casa nostra non lo avevamo e quindi lei poteva dare saggio di questa sua virtù solo quando andava in visita dalla famiglia del direttore della miniera ing.Step che invece disponeva di un magnifico piano a coda. Lo suonava la loro figlia adottiva di nome Marscenka (non conosco il ceco perciò scrivo secondo pronuncia) che era coetanea di mamma e sua amica del cuore.
Queste visite in casa Sten le ricordo molto bene perchè per noi due, che mamma ci trascinava sempre dietro, erano una vera pena. Dovevamo dimostrare di essere molto educati e pertanto non fare questo nè quello, saper stare fermi seduti e non correre per la stanza e tanto meno bisticciarci, il che per noi era davvero molto difficile. Poi c'erano queste esibizioni al piano di Marscenka e mamma che non ci entusiasmavano per niente. Saranno state tutte due molto brave e senz'altro meritevoli delle lodi che raccoglievano da parte della signora Step, ma a noi due sarebbe piaciuto molto di più poter giocare liberamente sulla "Austurzhalde" o sul"Gabelsberg" o magari anche solo sulla strada.
A proposito di Marscanka debbo dire che la ricordo ancora oggi con molta simpatia perchè fù lei a regalarmi il mio primo album di francobolli. Uno Schaubek Universale. Eravamo nel 1915 o 19l6 circa, quando ancora ogni filatelico raccoglieva i francobolli di tutto il mondo. Nell'album c'erano tutti gli antichi stati e colonie e se invece di regalarlo via a mia volta ad un compagno di scuola prima di lasciare Jàchymov me lo fossi tento caro, oggi sarei padrone di una bella fortuna.-"se"!
Papà faceva anche parte d'un coro che aveva sede nello stesso locale in cui si trovava la biblioteca. Di questo coro però s'è sempre sentito parlare molto poco. Evidentemente svolgeva un'attività quanto mai limitata. Penso sopratutto per aver avuto solo pochi aderenti. Infatti non era pensabile che in un'associazione privata, riservata all'alta e media borghesia, entrassero appartenenti al proletariato. Quindi in una cittadina di 4 – 5 mila abitanti, quasi tutti operai, questo coro non poteva essere stato che un complesso ridotto all'osso.
Molto nota invece era l'orchestra che durante l'estate suonava al Kurpank per gli ospiti dello stabilimento di cura e che era diretta dal maestro Kurz. Secondo papà Kurz era un musicista molto dotato. Insegnava alla Bürgerschule ed aveva anche l'aspetto dell'artista. Era molto alto, magro e portava le lenti alla maniera d'allora, vale a dire senza stanghette. Sorrideva di rado e dava l'impressíone di essere un uomo molto serio. A quei tempi, in verità, tutti i maestri dovevano sembrare molto seri e fare sempre la faccia "feruce", come se fossero tanti soldatini di re Franceschiello.
Il solo che ricordo facesse eccezione a questa regola era Glaser. Era il più giovane dei maestri della nostra scuola e tutt'altro che conformista. Sorrideva spesso e volentieri ed era sempre disponibile. Anche lui suonava ed insegnava il violino giacchè in Austria a quei tempi nelle scuole elementari era d'obbligo l'insegnamento del canto e quindi tutti i maestri dovevano saper suonare o l'armonium o il violino.
Dirò che le canzoni che ci venivano insegnate e che ricordo ancora oggi, erano melodiose e piene di poesia. Parlavano a noi bambini ingenui con semplicità ed esaltavano nei più grandi i sentimenti più nobili che albergano in fondo all'animo di ogni essere umano. Erano allegre, piane di brio, tristi e melodiose, e piene di nostalgia. Parlavano di fede e fedeltà, di cameratismo e d'amore per la famiglia e per la patria, di coraggio e rassegnazione, di morte e di speranza ed hanno indubbiamente contribuito in misura notevole alla formazione del mio "habitus mentis", d'estrazione decisamente teutonica.
Il complesso musicale più numeroso e popolare però era sul posto la banda dei minatori (Bergkapelle). Non c'era festa civile o religiosa alla quale non partecipasse. Il direttore della medesima, come già detto in precedenza, era un ceco e quindi aveva dato al complesso l'impostazione delle bande boeme che si differenziano dalle altre per il fatto che in esse il canto è prevalentemente affidato ai flicorni ed ai bombardini invece che alle cornette ed ai tromboni. Di questo particolare però, mi resí conto solo quando nel 1922 sono entrato a fare parte della banda del convitto "San Luígí". Prima d’allora mi era sfuggito mancando il confronto. Ora invece l'avverto immediatamente.
Riprendo i miei "Ricordi" dopo averli lasciati per mesi nel cassetto. Scrivere non è mai stato il mio forte, ora comincia addirittura a pesarmi. Ma cos'è che non comincia a pesarmi con 77 anni sulla groppa? Perciò mi sono anche chiesto sa valga la pena di continuare e dopo aver attentamente vagliato i pro e contro, ho finito però col decidermi per il sì.
Almeno finchè non m'accargerò che le mie facoltà mentali cominciano a fare acqua sul serio. Per ora sono ancora pienamente efficenti, memoria a parte, la quale peraltro è stata sempre piuttosto labile e traditrice. A gettare noi il tutto nel cestino c'è sempre tempo. Possono farlo anche gli altri.
Vi è poi anche un altro motivo che mi spinge a continuare. Mi sono accorto che lo scrivere a ruota libera, senza schemi e prevenzioni, mi consente di sfogarmi con me stesso a di rimanere nel vago senza offendere nessuno.
+++++++++++
Intanto torniamo a St.Joachimsthal dove Bruno ad io abbiamo passata la nostra infanzia negli agi d'una famiglia benestante e molto in vista e nei disagi d'un periodo infausto: la prima guerra mondiale che ci fece conoscere molto presto ciò che i miei figli, per fortuna, non conobbero mai: "la fame".
Per quanti ci conoscevano, Bruno, che era fisicamente papà sputato, coi suoi capelli neri ed occhi scuri, rappresentava, più o meno degnamente, l'Italia del genitore, mentre io, biondo e cogli occhi chiari facevo fede dell'origine teutonica della genitrice.
Nulla di strano quindi se Bruno è stato sempre in fondo, in fondo il begnamino di papà ed io quello dalla mamma. Preferenze naturalmente mascherate, ma facilmente intuibili.
Mentre per l'anagrafe, per conoscenti ed amici io ero "Karl", in famiglia tutti mi chiamavano "Carlo" e questo, credo per volere di mamma che sapeva di fare così piacere a papà, il quale da buon triestino, senza venir mai meno alla sua lealtà verso S.M. l'imperatore, suo datore di lavoro, si compiaceva apertamente delle sue origini italiche. Allora a me ovviamente, era del tutto indifferente essere Karl o Carlo.
Finchè non andavamo a scuola, Bruno ed io eravamo molto legati e quando non litigavamo - andavamo perfettamente d'accordo, nonostante le diversità di carattere che ci erano peculiari. Insieme combinavamo di tutti colori, tanto che per tutto il vicinato il binomio " Carlo e Bruno " era diventato sinonimo di “ Max und Moritz ", i famosi monelli dell'umorista W. Busch.
Delle nostre bravate, di cui l'ideatore era quasi sempre Bruno, mi ricordo, per esempio quelle messe in atto ai danni di due nostri vicini di casa di nome Lenhardt. Due fratelli non più tanto giovani. Lei nubile e lui scapolo. Abitavano al pianterreno della casa accanto. Quando aprivano le finestre che erano doppie e senza imposte, come in tutte le case del luogo, quelle che davano all'esterno, venivano fissate dalla nostra zitellona semplicemente con spago. Così un bel giorno di vento, Bruno, munitosi di forbici, mentre io facevo da palo, tagliò più d'uno di questi fili che fissavano i vetri al muro, colle conseguenze facilmente intuibili. Quando la povera donna venne a protestare per i danni subiti, senza aver peraltro alcuna prova della nostra colpa, noi due, ovviamente negammo decisamente ogni addebito. Non ricordo come poi tutto sia andato a finire. Di certo il battipanni non entrò in funzione. Per papà valeva sempre la massima: in dubbio pro reo.
Un'altra impresa ai danni della Lenhardt la mettemmo in atto un sabato pomeriggio. Sabato era la giornata del gran bucato che verso sera si concludeva col bagno in vasca di noi due.
La nostra vittima aveva l'abitudine di recarsi nel tardo pomeriggio dal lattaio che aveva il negozio dall'altra parte del piccolo parco che lei quindi doveva attraversare. Le aiuole erano delimitate da filo di ferro fissato su piccoli paletti. Senza farci vedere, l'abbiamo lasciata andare in negozio a quindi abbiamo teso attraverso la stradina il filo staccato da un paletto e fissato su quello del lato opposto a pochi centimetri da terra. L'ignara vittima aveva anche l'abitudine di guardare sempre per aria, il che favorì notevolmente il nostro agguato. Sulla via dal ritorno, come previsto, incespò sul filo e fece cadere la brocca, piena di latte, che si ruppe in mille pazzi. "Missione compiuta", senza perdere un solo istante, lasciammo il nascondiglio e tornammo a casa di corsa, dove senza farci tanto pregare, come al solito, ci tuffammo nella vasca che già ci attendeva piena d'acqua. Non avevamo il minimo dubbio che, anche senza essere stati visti da alcuno, i primi ad essere accusati del misfatto da parte della vittima saremmo stati noi. E così fù. Ma questa volta avevamo un alibi da far valere e mamma in perfetta buona fede, si disse convinta che a fare lo scherzo non potevamo essere stati noi. Anche qui non ricordo come sia andata a finire.
Un giorno ho trovato in soffitta, fra il materiale fotografico di papà, alcuni tubetti di magnesio per foto lampo. Qual giorno mamma era a letto ammalata e papà stava facendo il suo consueto pisolotto che era uso fare prima di rientrare in ufficio. Fanny, la donna di sevizio e Bruno erano andati non so dove, sicchè mi trovavo solo "e senza alcun sospetto ".
Presi due tubetti ed alcune strisce di miccia ed in cucina feci rifornimento di fiammiferi. Quindi mi recai in giardino, che era a pendio, e versai la polvera di magnesio su una pietra cha venne a trovarsi circa all'altezza del mio busto. Aveva piovuto un pò in mattinata ed il terreno era ancora umido. Mi abbassai in modo da venirmi a trovare sino all'altezza degli occhi, sotto il livello della pietra ad accesi la miccia. Ma causa l'umidità la miccia si spense subito. Tentai una seconda volta col medesimo risultato. Allora, pur tenendomi il più possibile al riparo, cercai di dare fuoco alla polvere direttamente col fiammifero e mal me ne incorse. Un lampo acceccante, un dolore acutissimo alla fronte ed alle mani ed io ero servito.
Corsi in casa ed in cucina cercai di lavarmi le mani a la fronte con l'ovvio risultato di acutizzare il dolore. Non osai chiamare nè papà nè mamma o mi buttai sul divano nella stanza da soggiorno che era attigua alla loro camera da letto piangendo sempre più forte. Sapevo o perlomeno speravo, che si sarebbero svegliati, come infatti avvenne.
Papà chiamò il guardiano perchè mi portasse dal medico che abitava nell'Unterthal. Mai, come quella volta me la presi col sole che era rispuntato tra le nuvole e per tutto il percorso che dovetti fare, quasi per punirmi per quanto avevo fatto, mi batteva in fronte e sulle mani, sulle quali si erano nel frattempo formate le classiche vesciche da ustione che mi duolevano atrocemente. Avevo vesciche anche sulla fronte e ciglia, sopracciglia e capelli bruciacchiati.
Commento della mamma: "per fortuna il tuo angelo protettore ha saputo salvarti gli occhi. Avresti potuto rimanere cieco". Benedetto questo angelo protettore ! Oggi direi; "benedette le lacrime che non servono solo a piangere".
A St.Joachimsthal esisteva pure un "Turnverein" (Unione Ginnastica) i cui associati praticavano prevalentemente la ginnastica sugli attrezzi e a corpo libero. Portavano una divisa bianca del tutto simile a quella che anche in Italia indossano gli attrezzisti, con in più sulla maglia un emblema costituito da quattro "F" in composizione a croce.
Erano le iniziali di "frisch - fromm - fröhlich - frei" (sano - pio - allegro – libero) che era appunto il motto dell'associazione.
Il football era conosciuto solo di nome ed il tennis era riservato agli ospiti dello stabilimento di cura. Molto in uso invece il "Schlagball", giuoco molto simile al baseball ed il "Faustball", simile alla palla a volo.
Il migliore attrezzista era un giovane ventenne di cognome Singer. Era figlio d'un modesto fabbricante di sapone. Lo ricordo però più che per la sua capacità atletica, per il fatto che morì all'improvviso di paralisi cardiaca, mentre, di ritorno dalla palestra, stava rientrando in casa. Di questa morte tutti ne parlarono a lungo.
Una volta scoppiata la guerra, i giovani partirono quasi tutti per il fronte ed il "Turnverein" cessò praticamente la sua attività. Nella palestra e sul campo sportivo rimanemmo solo noi ragazzi dai sei ai ventanni.
Ricordo molte delle gite scolastiche che facevamo a primavera inoltrata. Non si andava molto lontano. Ma spesso si partiva già di buon ora e si rientrava solo all'imbrunire. Come mezzo di trasporto non esisteva che il cavallo di san Francesco.
Si camminava sempre inquadrati, a passo cadenzato e cantando.
Anche i gruppi di giovani che nei giorni festivi si portavano, colle loro ragazze, al Stadtteich o a Gottesgab oppure sul Fichtelberg, vi ci andavano sempre inquadrati, a passo cadenzato, cantando allegramente. Marciavano, cantavano al suono di chitarra, ridevano, scherzavano, sempre uniti, e solo giunti alla mèta, rompevano le file.
Le chitarre che i giovanotti portavano erano ornate con lunghi nastri multicolori ricevuti in dono dalle loro belle.
Ogni volta che li vedevo rientrare ridenti baldanzosi e felici, sempre marciando in file serrate, sentivo un prepotente desiderio di avere presto la loro età per poter prendere parte a questo gite, magari anch'io in compagnia di una bella amica.
Il cameratismo vi era molto sentito e non solo fra i giovani e l'amicizia era sacra. Altruismo e lealtà erano i cardini dell'etica sociale. “Uno per tutti e tutti per uno", sia sotto il sole cha nella insidiose visceri della terra nelle quali i più grandi scavavano sempre nuove gallerie in cerca dell'uranio e nelle quali più d'uno lasciava anzitempo la vita.
Un altro evento di fondamentale importanza per me ed i miei genitore, dopo quello del mio "primo giorno di scuola", fù quello della"mia prima comunione”. Per l'occasione venne da Vöcklabruck per la prima volta - ed anche ultima, nonna Clementino, die Grossmamma".
La distinzione fra nonna materna e nonna paterna era da noi puntualizzata anche linguisticamente. Nonna Clementine era la "Grossmamma" mentre nonna Carlotta era per tutti, mamma compresa, la “ nonna ".
Ricordo che fra i regali che ci portò, c'era anche un vestito nero del "Grosspapa" (nonno), dal quale mamma ricavò per me l'abito per la cerimonia.
Eravamo nel maggio del 1918 e sul posto scarseggiava ormai tutto. Tutto meno i topi e i ratti, le pulci ed i pidocchi che erano diventati un vero flagello. Non bastasse era apparsa anche la “bisamratte" (ratto muschiato), fino allora sconosciuto in loco. Dicevano che era giunto dall'est e che era non solo molto vorace ma anche aggressivo e quindi pericoloso. Un esemplare imbalsamato fece ben presto mostra di se nella vetrina della libreria Friedrich. Era un ratto molto grande, di coloro bruno rossiccio ed aveva una coda grossa aquamosa. Così almeno la ricordo. Chi ne portava uno, vivo o morto, in Comune, riceveva un premio in denaro.
In quanto ai pidocchi, era arrivato a scuola l'ordine di fare radere i capelli a tutti i ragazzi indistintamente e di far lavare ripetutamente, con petrolio, la testa alle ragazze. A noi, tanto per non sbagliare, toccò sia la rasatura a zero che il lavaggio col potrolio. I vestiti venivano fatti lavare a lungo in acqua bollente, anche se a dire il vero, non mi ricordo d'essere mai stato punzecchiato da pulci.
Ma torniamo a bomba. Come sempre nella grandi occasioni, quel giorno tutti si davano un gran da fare. Mamma poi era fuori di se dall'emozione e mentre mi aiutava a vestirmi, mi raccomandava di continuo di stare molto attento a non mettere nulla in bocca. Il digiuno, a partire dalla mezzanotte, doveva essere rigorosamente osservato.
Mi parlava di Cristo, dell'ostia, del paradiso e dell'inferno.
Tutte cose che avevo sentito dire mille e mille volte dal catechista che in merito la sapeva lunga. Insisteva nello spiegarmi che quel giorno Cristo sarebbe entrato in me a mezzo della santissima ostia. Parlava, parlava, ora rido, ora diventando seria, seria ed io l'ascoltavo dicendo sempre di si. Sapevo che mettere in dubbio i sacri misteri era un grosso peccato che proprio quel giorno non era il caso di commettere.
Naturalmente anche "Grossmamma" aveva da dire la sua e rincarando le raccomandazioni di mamma, mi raccontava che sua madre, raggiunta una certa età, il venerdì santo si ritirava nella sua camera e per ventiquattro ore digiunava pregando.
Questo particolare lo conoscevo di già a memoria per averlo sentito da mamma in altre occasioni, Mi raccontò e raccomandò anche altre cose che ora ovviamente non ricordo più.
Comunque quel giorno mamma e nonna in santa alleanza facevano del loro meglio per aprirmi la porta del paradiso. Della cerimonia ricordo che eravamo schierati davanti all'altare in due gruppi. Da una parte le bambine tutte vestite di bianco e dall’altra i maschietti che, se anche non erano tutti vestiti di nero, avevano indistintamente la sciarpa bianca a tracolla e in mano la candela accesa. Non ricordo come fossero le candele dei miei compagni. La mia era bellissima; un vero capolavoro d'arte sacra che mamma conservò per me come una reliquia e che purtroppo andò perduta quando dopo gli eventi della seconda guerra mondiale, la famiglia lasciò Idria per Galliano di Cividale. L'immagine santa, che come tutti gli altri, avevo ricevuta per l'occasione dal catechista e che, messa in una cornice color oro, prima a St.Joachimsthal, poi a Idria tenevo appesa sopra il mio letto e che sembrava pure essere andata perduta, è invece stata ritrovata in una dalle vecchie casse che Elvira conserva a casa sua. A festa finita ci fù anche la "foto ufficiale" secondo la tradizionale regia del tempo.
Almeno finchè non m'accargerò che le mie facoltà mentali cominciano a fare acqua sul serio. Per ora sono ancora pienamente efficenti, memoria a parte, la quale peraltro è stata sempre piuttosto labile e traditrice. A gettare noi il tutto nel cestino c'è sempre tempo. Possono farlo anche gli altri.
Vi è poi anche un altro motivo che mi spinge a continuare. Mi sono accorto che lo scrivere a ruota libera, senza schemi e prevenzioni, mi consente di sfogarmi con me stesso a di rimanere nel vago senza offendere nessuno.
+++++++++++
Intanto torniamo a St.Joachimsthal dove Bruno ad io abbiamo passata la nostra infanzia negli agi d'una famiglia benestante e molto in vista e nei disagi d'un periodo infausto: la prima guerra mondiale che ci fece conoscere molto presto ciò che i miei figli, per fortuna, non conobbero mai: "la fame".
Per quanti ci conoscevano, Bruno, che era fisicamente papà sputato, coi suoi capelli neri ed occhi scuri, rappresentava, più o meno degnamente, l'Italia del genitore, mentre io, biondo e cogli occhi chiari facevo fede dell'origine teutonica della genitrice.
Nulla di strano quindi se Bruno è stato sempre in fondo, in fondo il begnamino di papà ed io quello dalla mamma. Preferenze naturalmente mascherate, ma facilmente intuibili.
Mentre per l'anagrafe, per conoscenti ed amici io ero "Karl", in famiglia tutti mi chiamavano "Carlo" e questo, credo per volere di mamma che sapeva di fare così piacere a papà, il quale da buon triestino, senza venir mai meno alla sua lealtà verso S.M. l'imperatore, suo datore di lavoro, si compiaceva apertamente delle sue origini italiche. Allora a me ovviamente, era del tutto indifferente essere Karl o Carlo.
Finchè non andavamo a scuola, Bruno ed io eravamo molto legati e quando non litigavamo - andavamo perfettamente d'accordo, nonostante le diversità di carattere che ci erano peculiari. Insieme combinavamo di tutti colori, tanto che per tutto il vicinato il binomio " Carlo e Bruno " era diventato sinonimo di “ Max und Moritz ", i famosi monelli dell'umorista W. Busch.
Delle nostre bravate, di cui l'ideatore era quasi sempre Bruno, mi ricordo, per esempio quelle messe in atto ai danni di due nostri vicini di casa di nome Lenhardt. Due fratelli non più tanto giovani. Lei nubile e lui scapolo. Abitavano al pianterreno della casa accanto. Quando aprivano le finestre che erano doppie e senza imposte, come in tutte le case del luogo, quelle che davano all'esterno, venivano fissate dalla nostra zitellona semplicemente con spago. Così un bel giorno di vento, Bruno, munitosi di forbici, mentre io facevo da palo, tagliò più d'uno di questi fili che fissavano i vetri al muro, colle conseguenze facilmente intuibili. Quando la povera donna venne a protestare per i danni subiti, senza aver peraltro alcuna prova della nostra colpa, noi due, ovviamente negammo decisamente ogni addebito. Non ricordo come poi tutto sia andato a finire. Di certo il battipanni non entrò in funzione. Per papà valeva sempre la massima: in dubbio pro reo.
Un'altra impresa ai danni della Lenhardt la mettemmo in atto un sabato pomeriggio. Sabato era la giornata del gran bucato che verso sera si concludeva col bagno in vasca di noi due.
La nostra vittima aveva l'abitudine di recarsi nel tardo pomeriggio dal lattaio che aveva il negozio dall'altra parte del piccolo parco che lei quindi doveva attraversare. Le aiuole erano delimitate da filo di ferro fissato su piccoli paletti. Senza farci vedere, l'abbiamo lasciata andare in negozio a quindi abbiamo teso attraverso la stradina il filo staccato da un paletto e fissato su quello del lato opposto a pochi centimetri da terra. L'ignara vittima aveva anche l'abitudine di guardare sempre per aria, il che favorì notevolmente il nostro agguato. Sulla via dal ritorno, come previsto, incespò sul filo e fece cadere la brocca, piena di latte, che si ruppe in mille pazzi. "Missione compiuta", senza perdere un solo istante, lasciammo il nascondiglio e tornammo a casa di corsa, dove senza farci tanto pregare, come al solito, ci tuffammo nella vasca che già ci attendeva piena d'acqua. Non avevamo il minimo dubbio che, anche senza essere stati visti da alcuno, i primi ad essere accusati del misfatto da parte della vittima saremmo stati noi. E così fù. Ma questa volta avevamo un alibi da far valere e mamma in perfetta buona fede, si disse convinta che a fare lo scherzo non potevamo essere stati noi. Anche qui non ricordo come sia andata a finire.
Un giorno ho trovato in soffitta, fra il materiale fotografico di papà, alcuni tubetti di magnesio per foto lampo. Qual giorno mamma era a letto ammalata e papà stava facendo il suo consueto pisolotto che era uso fare prima di rientrare in ufficio. Fanny, la donna di sevizio e Bruno erano andati non so dove, sicchè mi trovavo solo "e senza alcun sospetto ".
Presi due tubetti ed alcune strisce di miccia ed in cucina feci rifornimento di fiammiferi. Quindi mi recai in giardino, che era a pendio, e versai la polvera di magnesio su una pietra cha venne a trovarsi circa all'altezza del mio busto. Aveva piovuto un pò in mattinata ed il terreno era ancora umido. Mi abbassai in modo da venirmi a trovare sino all'altezza degli occhi, sotto il livello della pietra ad accesi la miccia. Ma causa l'umidità la miccia si spense subito. Tentai una seconda volta col medesimo risultato. Allora, pur tenendomi il più possibile al riparo, cercai di dare fuoco alla polvere direttamente col fiammifero e mal me ne incorse. Un lampo acceccante, un dolore acutissimo alla fronte ed alle mani ed io ero servito.
Corsi in casa ed in cucina cercai di lavarmi le mani a la fronte con l'ovvio risultato di acutizzare il dolore. Non osai chiamare nè papà nè mamma o mi buttai sul divano nella stanza da soggiorno che era attigua alla loro camera da letto piangendo sempre più forte. Sapevo o perlomeno speravo, che si sarebbero svegliati, come infatti avvenne.
Papà chiamò il guardiano perchè mi portasse dal medico che abitava nell'Unterthal. Mai, come quella volta me la presi col sole che era rispuntato tra le nuvole e per tutto il percorso che dovetti fare, quasi per punirmi per quanto avevo fatto, mi batteva in fronte e sulle mani, sulle quali si erano nel frattempo formate le classiche vesciche da ustione che mi duolevano atrocemente. Avevo vesciche anche sulla fronte e ciglia, sopracciglia e capelli bruciacchiati.
Commento della mamma: "per fortuna il tuo angelo protettore ha saputo salvarti gli occhi. Avresti potuto rimanere cieco". Benedetto questo angelo protettore ! Oggi direi; "benedette le lacrime che non servono solo a piangere".
A St.Joachimsthal esisteva pure un "Turnverein" (Unione Ginnastica) i cui associati praticavano prevalentemente la ginnastica sugli attrezzi e a corpo libero. Portavano una divisa bianca del tutto simile a quella che anche in Italia indossano gli attrezzisti, con in più sulla maglia un emblema costituito da quattro "F" in composizione a croce.
Erano le iniziali di "frisch - fromm - fröhlich - frei" (sano - pio - allegro – libero) che era appunto il motto dell'associazione.
Il football era conosciuto solo di nome ed il tennis era riservato agli ospiti dello stabilimento di cura. Molto in uso invece il "Schlagball", giuoco molto simile al baseball ed il "Faustball", simile alla palla a volo.
Il migliore attrezzista era un giovane ventenne di cognome Singer. Era figlio d'un modesto fabbricante di sapone. Lo ricordo però più che per la sua capacità atletica, per il fatto che morì all'improvviso di paralisi cardiaca, mentre, di ritorno dalla palestra, stava rientrando in casa. Di questa morte tutti ne parlarono a lungo.
Una volta scoppiata la guerra, i giovani partirono quasi tutti per il fronte ed il "Turnverein" cessò praticamente la sua attività. Nella palestra e sul campo sportivo rimanemmo solo noi ragazzi dai sei ai ventanni.
Ricordo molte delle gite scolastiche che facevamo a primavera inoltrata. Non si andava molto lontano. Ma spesso si partiva già di buon ora e si rientrava solo all'imbrunire. Come mezzo di trasporto non esisteva che il cavallo di san Francesco.
Si camminava sempre inquadrati, a passo cadenzato e cantando.
Anche i gruppi di giovani che nei giorni festivi si portavano, colle loro ragazze, al Stadtteich o a Gottesgab oppure sul Fichtelberg, vi ci andavano sempre inquadrati, a passo cadenzato, cantando allegramente. Marciavano, cantavano al suono di chitarra, ridevano, scherzavano, sempre uniti, e solo giunti alla mèta, rompevano le file.
Le chitarre che i giovanotti portavano erano ornate con lunghi nastri multicolori ricevuti in dono dalle loro belle.
Ogni volta che li vedevo rientrare ridenti baldanzosi e felici, sempre marciando in file serrate, sentivo un prepotente desiderio di avere presto la loro età per poter prendere parte a questo gite, magari anch'io in compagnia di una bella amica.
Il cameratismo vi era molto sentito e non solo fra i giovani e l'amicizia era sacra. Altruismo e lealtà erano i cardini dell'etica sociale. “Uno per tutti e tutti per uno", sia sotto il sole cha nella insidiose visceri della terra nelle quali i più grandi scavavano sempre nuove gallerie in cerca dell'uranio e nelle quali più d'uno lasciava anzitempo la vita.
Un altro evento di fondamentale importanza per me ed i miei genitore, dopo quello del mio "primo giorno di scuola", fù quello della"mia prima comunione”. Per l'occasione venne da Vöcklabruck per la prima volta - ed anche ultima, nonna Clementino, die Grossmamma".
La distinzione fra nonna materna e nonna paterna era da noi puntualizzata anche linguisticamente. Nonna Clementine era la "Grossmamma" mentre nonna Carlotta era per tutti, mamma compresa, la “ nonna ".
Ricordo che fra i regali che ci portò, c'era anche un vestito nero del "Grosspapa" (nonno), dal quale mamma ricavò per me l'abito per la cerimonia.
Eravamo nel maggio del 1918 e sul posto scarseggiava ormai tutto. Tutto meno i topi e i ratti, le pulci ed i pidocchi che erano diventati un vero flagello. Non bastasse era apparsa anche la “bisamratte" (ratto muschiato), fino allora sconosciuto in loco. Dicevano che era giunto dall'est e che era non solo molto vorace ma anche aggressivo e quindi pericoloso. Un esemplare imbalsamato fece ben presto mostra di se nella vetrina della libreria Friedrich. Era un ratto molto grande, di coloro bruno rossiccio ed aveva una coda grossa aquamosa. Così almeno la ricordo. Chi ne portava uno, vivo o morto, in Comune, riceveva un premio in denaro.
In quanto ai pidocchi, era arrivato a scuola l'ordine di fare radere i capelli a tutti i ragazzi indistintamente e di far lavare ripetutamente, con petrolio, la testa alle ragazze. A noi, tanto per non sbagliare, toccò sia la rasatura a zero che il lavaggio col potrolio. I vestiti venivano fatti lavare a lungo in acqua bollente, anche se a dire il vero, non mi ricordo d'essere mai stato punzecchiato da pulci.
Ma torniamo a bomba. Come sempre nella grandi occasioni, quel giorno tutti si davano un gran da fare. Mamma poi era fuori di se dall'emozione e mentre mi aiutava a vestirmi, mi raccomandava di continuo di stare molto attento a non mettere nulla in bocca. Il digiuno, a partire dalla mezzanotte, doveva essere rigorosamente osservato.
Mi parlava di Cristo, dell'ostia, del paradiso e dell'inferno.
Tutte cose che avevo sentito dire mille e mille volte dal catechista che in merito la sapeva lunga. Insisteva nello spiegarmi che quel giorno Cristo sarebbe entrato in me a mezzo della santissima ostia. Parlava, parlava, ora rido, ora diventando seria, seria ed io l'ascoltavo dicendo sempre di si. Sapevo che mettere in dubbio i sacri misteri era un grosso peccato che proprio quel giorno non era il caso di commettere.
Naturalmente anche "Grossmamma" aveva da dire la sua e rincarando le raccomandazioni di mamma, mi raccontava che sua madre, raggiunta una certa età, il venerdì santo si ritirava nella sua camera e per ventiquattro ore digiunava pregando.
Questo particolare lo conoscevo di già a memoria per averlo sentito da mamma in altre occasioni, Mi raccontò e raccomandò anche altre cose che ora ovviamente non ricordo più.
Comunque quel giorno mamma e nonna in santa alleanza facevano del loro meglio per aprirmi la porta del paradiso. Della cerimonia ricordo che eravamo schierati davanti all'altare in due gruppi. Da una parte le bambine tutte vestite di bianco e dall’altra i maschietti che, se anche non erano tutti vestiti di nero, avevano indistintamente la sciarpa bianca a tracolla e in mano la candela accesa. Non ricordo come fossero le candele dei miei compagni. La mia era bellissima; un vero capolavoro d'arte sacra che mamma conservò per me come una reliquia e che purtroppo andò perduta quando dopo gli eventi della seconda guerra mondiale, la famiglia lasciò Idria per Galliano di Cividale. L'immagine santa, che come tutti gli altri, avevo ricevuta per l'occasione dal catechista e che, messa in una cornice color oro, prima a St.Joachimsthal, poi a Idria tenevo appesa sopra il mio letto e che sembrava pure essere andata perduta, è invece stata ritrovata in una dalle vecchie casse che Elvira conserva a casa sua. A festa finita ci fù anche la "foto ufficiale" secondo la tradizionale regia del tempo.
Grossmamma, con addosso l'abito delle grandi occasioni, seduta, ed io in piedi accanto a lei vestito dell'abito dal nonno complatamente rifatto, coi calzoní a mazz'asta come lo esigeva la moda del tempo, sciarpa bianca di rigore, candela in mano come se fosse uno scetro e testa rapata a zero.
Anche papà quel giorno si sentì molto fiero del suo rampollo. Ma penso che lo fosse stato di più il giorno in cui m'accompagnò per la prima volta a scuola.
Come cattolico praticante papà infatti non valeva gran chè.
Andava si regolarmente a messa nei giorni comandati, assieme a tutta la sacra famiglia, ma penso lo facesse più per abitudine o dovere, che per convinzione. Non che l'avesse col Padre eterno. No! Semplicemente non nutriva molta simpatia per il clero e non ne faceva mistero. Quando parlava di loro usava spesso e volentieri il termine:"Pfaffe" che vuol dire prete in senso piuttosto spregiativo, anzicchè: "Prister" ossia sacerdote. A mamma, che era addirittura bigotta, questo non andava molto a genio e francamente anche a me dispiaceva non poco.
Non riuscivo a capire come mai papà, cosi assennato e posato, non si rendesse conto che questa sua antipatia l'avrebbe portato dritto, dritto all'inferno; mamma "saggiamente" non perdeva mai occasione per farglielo presente. Ma lui da quell'orecchio non ci sentiva. Almeno allora. Poi col passare degli anni, quando la mamma se ne era di già andata per sempre, la paura della morte gli rimise in mano la bibbia e lo riconciliò coi "pfaffen"
Pochi giorni dopo lo "storico evento", Grossmamma decise di anticipare il suo ritorno a Vöcklabruck, si era resa conto di persona che a St.Joachimsthal, specialmente per quanto riguardava i viveri, le cose andavano di male in peggio. Così venne pure deciso che Bruno ed io saremmo andati con lei, il che naturalmente, ci trovò subito pienamente consenzienti.
Già qualche mese prima, papà era stato invitato dal nonno in Ungheria, dove era stato alloggiato in un monastero di frati Benedettini che in fatto di viveri nuotavano nell'abbondanza.
Era stato colto da un forte esaurimento nervoso che tutti dicevano dovuto a denutrizione, come infatti sarà stato. Ma lontano dalla famiglia s'era subito sentito come un pesce fuor d’acqua e colto da nostalgia scelse fra i due mali il male e minore e riprese la via del ritorno dopo solo poco più d'una settimana di vacanza.
Con noi invece le cose sono andate ben diversamente. Non che Vöcklabruck fosse proprio il paese del bengodi e che non ci fossero mai stati momenti in cui la lontananza da casa non si fosse fatta sentire. Non direi proprio, ma tra St.Joachimsthal e Vöcklabruck vi era una bella differenza a tutto vantaggio di quest'ultima. Intanto già come cittadina era molto più grande e tutta in pianura e in quanto al mangiare non c'erano più grossi problemi. C'era l'inconveniente della scuola ma si trattava d'un inconveniente che in fin dei conti non mi dispiaceva per nulla. Infatti l'edificio scolastico era stato requisito dall'esercito che l'aveva trasformato in ospedale per i prigionieri di guerra. Le varie classi delle elementari erano quindi state sistemate in altri locali resi disponibili. La mia, per esempio, era finita in una stalla del "Gasthof" situato nella piazza principale. Non era quindi un locale di lusso, ma per essere stata una stalla non era poi tanto male.
In compenso alla periferia del paese c'era una piscina vera e propria con tante cabine e tanto di bagnino. Per noi una novità in assoluta.
Poi c'erano anche altre novità ormai passate nel dimenticatoio. Insomma la nuova sistemazione ci andava benissimo, tanto più che nella villa accanto alla nostra, abitava una famiglia che aveva due ragazzi press'a poco della nostra età e coi quali, manco a dirlo, legammo in bravissimo tempo. Il più grande dei due che aveva uno o due anni più di me, era un tipo pieno di iniziative.
La sapeva più lunga di Bruno e quando arrivava col fratello in casa nostra, la nonna trovò sempre tutte le scuse possibili ed immaginabili per mandarci tutti insieme a giuocare fuori in giardino. Evidentemente le iniziative dei nostri nuovi amici non erano di suo gradimento. Si sa, gusti sono gusti! D'altronde anche noi due non subimmo miglior trattamento in casa dei vicini. La loro mamma infatti, prima cercava di tenerci buoni, offrendoci abbondanti merende a base di pane nero con burro, marmellata o miele, latte o the con biscotti, a seconda della disponibilità contingente e che ovviamente non rifiutammo mai.
Anche papà quel giorno si sentì molto fiero del suo rampollo. Ma penso che lo fosse stato di più il giorno in cui m'accompagnò per la prima volta a scuola.
Come cattolico praticante papà infatti non valeva gran chè.
Andava si regolarmente a messa nei giorni comandati, assieme a tutta la sacra famiglia, ma penso lo facesse più per abitudine o dovere, che per convinzione. Non che l'avesse col Padre eterno. No! Semplicemente non nutriva molta simpatia per il clero e non ne faceva mistero. Quando parlava di loro usava spesso e volentieri il termine:"Pfaffe" che vuol dire prete in senso piuttosto spregiativo, anzicchè: "Prister" ossia sacerdote. A mamma, che era addirittura bigotta, questo non andava molto a genio e francamente anche a me dispiaceva non poco.
Non riuscivo a capire come mai papà, cosi assennato e posato, non si rendesse conto che questa sua antipatia l'avrebbe portato dritto, dritto all'inferno; mamma "saggiamente" non perdeva mai occasione per farglielo presente. Ma lui da quell'orecchio non ci sentiva. Almeno allora. Poi col passare degli anni, quando la mamma se ne era di già andata per sempre, la paura della morte gli rimise in mano la bibbia e lo riconciliò coi "pfaffen"
Pochi giorni dopo lo "storico evento", Grossmamma decise di anticipare il suo ritorno a Vöcklabruck, si era resa conto di persona che a St.Joachimsthal, specialmente per quanto riguardava i viveri, le cose andavano di male in peggio. Così venne pure deciso che Bruno ed io saremmo andati con lei, il che naturalmente, ci trovò subito pienamente consenzienti.
Già qualche mese prima, papà era stato invitato dal nonno in Ungheria, dove era stato alloggiato in un monastero di frati Benedettini che in fatto di viveri nuotavano nell'abbondanza.
Era stato colto da un forte esaurimento nervoso che tutti dicevano dovuto a denutrizione, come infatti sarà stato. Ma lontano dalla famiglia s'era subito sentito come un pesce fuor d’acqua e colto da nostalgia scelse fra i due mali il male e minore e riprese la via del ritorno dopo solo poco più d'una settimana di vacanza.
Con noi invece le cose sono andate ben diversamente. Non che Vöcklabruck fosse proprio il paese del bengodi e che non ci fossero mai stati momenti in cui la lontananza da casa non si fosse fatta sentire. Non direi proprio, ma tra St.Joachimsthal e Vöcklabruck vi era una bella differenza a tutto vantaggio di quest'ultima. Intanto già come cittadina era molto più grande e tutta in pianura e in quanto al mangiare non c'erano più grossi problemi. C'era l'inconveniente della scuola ma si trattava d'un inconveniente che in fin dei conti non mi dispiaceva per nulla. Infatti l'edificio scolastico era stato requisito dall'esercito che l'aveva trasformato in ospedale per i prigionieri di guerra. Le varie classi delle elementari erano quindi state sistemate in altri locali resi disponibili. La mia, per esempio, era finita in una stalla del "Gasthof" situato nella piazza principale. Non era quindi un locale di lusso, ma per essere stata una stalla non era poi tanto male.
In compenso alla periferia del paese c'era una piscina vera e propria con tante cabine e tanto di bagnino. Per noi una novità in assoluta.
Poi c'erano anche altre novità ormai passate nel dimenticatoio. Insomma la nuova sistemazione ci andava benissimo, tanto più che nella villa accanto alla nostra, abitava una famiglia che aveva due ragazzi press'a poco della nostra età e coi quali, manco a dirlo, legammo in bravissimo tempo. Il più grande dei due che aveva uno o due anni più di me, era un tipo pieno di iniziative.
La sapeva più lunga di Bruno e quando arrivava col fratello in casa nostra, la nonna trovò sempre tutte le scuse possibili ed immaginabili per mandarci tutti insieme a giuocare fuori in giardino. Evidentemente le iniziative dei nostri nuovi amici non erano di suo gradimento. Si sa, gusti sono gusti! D'altronde anche noi due non subimmo miglior trattamento in casa dei vicini. La loro mamma infatti, prima cercava di tenerci buoni, offrendoci abbondanti merende a base di pane nero con burro, marmellata o miele, latte o the con biscotti, a seconda della disponibilità contingente e che ovviamente non rifiutammo mai.
Poi quando cominciammo ad essere troppo disinvolti ed intraprendenti, più o meno gentilmente, anche li venivamo spediti in giardino. Ma questo modo di scaricarci non ci faceva nè caldo nè freddo. Lo comprendevamo benissimo specialmente quando a provocarlo era stato qualche vetro o vaso andato in frantumi per colpa nostra.
Quando arrivammo a Vöcklabruck, dei numerosi fratelli di mamma in casa non trovammo che zia Agnes, zia Tini o zia Martha. Tutti gli altri erano stati già sistemati oppure sotto lo armi, come Willi e Paul.
Agnes e Tini, quando non andavano in chiesa, aiutavano la nonna nelle faccende di casa oppure stavano in soggiorno per ore e ore a ricamare. Zia Martha andava ancora a scuola e per avere solo due o tre anni più di me, il sentirsi chiamata "zia" le creava grossi problemi, ora in un senso, ora nell'altro. Comunque era evidente che si aspettava da parto nostra una maggiore considerazione, che, inutile dirlo, non ci sentimmo mai di poterle tributare. Perciò quando venivamo resi responsabili di qualche malanno contestabile, Martha era sempre la nostra più feroce accusatrice, mentre Tini e soprattutto Agnes cercavano di scagionarci o perlomeno scusarci.
Il nonno, al nostro arrivo, si trovava ancora in Ungheria. Non mancò d'arrivare pochi giorni dopo. Era proprio come me lo immaginavo e come mamma ce l'aveva sempre descritto. Quando ci vide, la prima cosa che disse, rivolto alla nonna fà: "Come? Così grandi sono già i figli di Maria?" Era palesemente molto compiaciuto dei suoi nipotini e mostrò sempre molta comprensione per le nostre marachelle. Rimase in famiglia, credo, non più di dieci giorni, poi ritornò alla sua miniera in Ungheria o non lo rividi mai più.
Quando nel dicembre del l9l6, la cicogna ci portò un nuovo fratellino, mamma rimase molto male. Aveva sempre desiderata una femminuccia ed era convinta che questa sarebbe stata la volta buona. Credo che anche papà la pensasse allo stesso modo. Invece "Ughetto", che come ognuno di noi, non aveva chiesto a nessuno di poter far parte del consorzio umano e che, come ognuno di noi, doveva essere quello che il "destino" aveva deciso per lui e non quello che i suoi natali volevano che fosse, fece cosi la sua comparsa in questa" valle di lacrime ", non certo nelle condizioni a lui più favorevoli. La guerra infuriava da due anni ed i viveri cominciavano a mancare per tutti.
La fame cominciava a farsi sentire sempre più ed a mamma venne a mancare il latte subito dopo il "lieto evento". In più Ughetto era nato molto debole e gracile ed il dover essere allattato artificialmente non fece che rendere sempre più problematica la sua sopravvivenza.
E' ancora vivo in me il ricordo di quel dopopranzo in cui mamma gli cambiò i pannolini sul tavolo in soggiorno, piangendo in silenzio e Fanny, che le era accanto la consolava come meglio poteva. Poi, rivolgendosi a noi due che assistevamo alla scena, ci disse che doveva arrivare il medico e perciò era meglio che andassimo a slittare. Poi aggiunse, senza tanti preamboli, che il fratellino stava molto, molto male e che forse fra poco Dio l'avrebbe di nuovo richiamato a sè.
Ma quado tornammo per la cena il medico se ne era di già andato da un bel pò, mamma non piangeva più sembrava anzi sollevata ed "Ughetto", di nuovo fasciato come un fagotto, dormiva tranquillo nella sua culla. Evidentemente Fanny non aveva la stoffa del profeta. Ugo rimase per molto tempo fra la vita e la morte, ma se la cavò benissimo ed avendo sempre bisogno della genitrice, divenne, anche senza essere femminuccia, il "cocco" di mamma e tale rimase per tutta la di lei esistenza.
Ricordo anche molto bene il dott. Langhans, nostro medico di famiglia era già avanti negli anni e fisicamente somigliava moltissimo al prof. Caldini, mio futuro preside al ginnasio liceo di Gorizia. La stessa statura, lo stesso portamento press'a poco gli stessi anni, anche lui sempre vestito di nero in redingote, che era un pò la divisa degli intellettuali d'allora, cogli occhiali a molla, assicurati ad una cordicella fissata ad un bottone del gilet. Aveva, camminando, l'aria d'uno che avesse la testa fra le nuvole. Aveva tutto l'aspetto dell'uomo distinto ed in effetti era stimato o benvoluto da tutti. Lo ricordo però non tanto per l'episodio su menzionato, quanto per il dente che un giorno mi tolse "a freddo" dopo avermi assicurato che non avrei sentito alcun dolore. Mamma, che mi aveva portato nel suo ambulatorio perchè mi liberasse dal male che il dente aveva cominciato a fare durante la notte, mi confermò che non avrei sentito proprio niente, bastava che stessi fermo e lasciassi fare a lui. Io, come sempre, in buona fede, l'ho lasciato fare.
Inutile precisare che appena cominciata l'operazione, mi sono messo ad urlare a squarciagola, convinto che col dente mi stesse togliendo anche il cervello. Ricordo che dall'ambulatorio m'hanno fatto passare in cucina dove la figlia del mio distinto carnefice, che gli faceva da Perpetua, essendo vedovo, cercava con mamma di calmarmi e di evitare che sputassi sangue addosso a tutto e tutti.
Fù allora che dichiarai guerra a tutti i dentisti, ignaro che un giorno sarei passato nelle loro fila.
Quando arrivammo a Vöcklabruck, dei numerosi fratelli di mamma in casa non trovammo che zia Agnes, zia Tini o zia Martha. Tutti gli altri erano stati già sistemati oppure sotto lo armi, come Willi e Paul.
Agnes e Tini, quando non andavano in chiesa, aiutavano la nonna nelle faccende di casa oppure stavano in soggiorno per ore e ore a ricamare. Zia Martha andava ancora a scuola e per avere solo due o tre anni più di me, il sentirsi chiamata "zia" le creava grossi problemi, ora in un senso, ora nell'altro. Comunque era evidente che si aspettava da parto nostra una maggiore considerazione, che, inutile dirlo, non ci sentimmo mai di poterle tributare. Perciò quando venivamo resi responsabili di qualche malanno contestabile, Martha era sempre la nostra più feroce accusatrice, mentre Tini e soprattutto Agnes cercavano di scagionarci o perlomeno scusarci.
Il nonno, al nostro arrivo, si trovava ancora in Ungheria. Non mancò d'arrivare pochi giorni dopo. Era proprio come me lo immaginavo e come mamma ce l'aveva sempre descritto. Quando ci vide, la prima cosa che disse, rivolto alla nonna fà: "Come? Così grandi sono già i figli di Maria?" Era palesemente molto compiaciuto dei suoi nipotini e mostrò sempre molta comprensione per le nostre marachelle. Rimase in famiglia, credo, non più di dieci giorni, poi ritornò alla sua miniera in Ungheria o non lo rividi mai più.
Quando nel dicembre del l9l6, la cicogna ci portò un nuovo fratellino, mamma rimase molto male. Aveva sempre desiderata una femminuccia ed era convinta che questa sarebbe stata la volta buona. Credo che anche papà la pensasse allo stesso modo. Invece "Ughetto", che come ognuno di noi, non aveva chiesto a nessuno di poter far parte del consorzio umano e che, come ognuno di noi, doveva essere quello che il "destino" aveva deciso per lui e non quello che i suoi natali volevano che fosse, fece cosi la sua comparsa in questa" valle di lacrime ", non certo nelle condizioni a lui più favorevoli. La guerra infuriava da due anni ed i viveri cominciavano a mancare per tutti.
La fame cominciava a farsi sentire sempre più ed a mamma venne a mancare il latte subito dopo il "lieto evento". In più Ughetto era nato molto debole e gracile ed il dover essere allattato artificialmente non fece che rendere sempre più problematica la sua sopravvivenza.
E' ancora vivo in me il ricordo di quel dopopranzo in cui mamma gli cambiò i pannolini sul tavolo in soggiorno, piangendo in silenzio e Fanny, che le era accanto la consolava come meglio poteva. Poi, rivolgendosi a noi due che assistevamo alla scena, ci disse che doveva arrivare il medico e perciò era meglio che andassimo a slittare. Poi aggiunse, senza tanti preamboli, che il fratellino stava molto, molto male e che forse fra poco Dio l'avrebbe di nuovo richiamato a sè.
Ma quado tornammo per la cena il medico se ne era di già andato da un bel pò, mamma non piangeva più sembrava anzi sollevata ed "Ughetto", di nuovo fasciato come un fagotto, dormiva tranquillo nella sua culla. Evidentemente Fanny non aveva la stoffa del profeta. Ugo rimase per molto tempo fra la vita e la morte, ma se la cavò benissimo ed avendo sempre bisogno della genitrice, divenne, anche senza essere femminuccia, il "cocco" di mamma e tale rimase per tutta la di lei esistenza.
Ricordo anche molto bene il dott. Langhans, nostro medico di famiglia era già avanti negli anni e fisicamente somigliava moltissimo al prof. Caldini, mio futuro preside al ginnasio liceo di Gorizia. La stessa statura, lo stesso portamento press'a poco gli stessi anni, anche lui sempre vestito di nero in redingote, che era un pò la divisa degli intellettuali d'allora, cogli occhiali a molla, assicurati ad una cordicella fissata ad un bottone del gilet. Aveva, camminando, l'aria d'uno che avesse la testa fra le nuvole. Aveva tutto l'aspetto dell'uomo distinto ed in effetti era stimato o benvoluto da tutti. Lo ricordo però non tanto per l'episodio su menzionato, quanto per il dente che un giorno mi tolse "a freddo" dopo avermi assicurato che non avrei sentito alcun dolore. Mamma, che mi aveva portato nel suo ambulatorio perchè mi liberasse dal male che il dente aveva cominciato a fare durante la notte, mi confermò che non avrei sentito proprio niente, bastava che stessi fermo e lasciassi fare a lui. Io, come sempre, in buona fede, l'ho lasciato fare.
Inutile precisare che appena cominciata l'operazione, mi sono messo ad urlare a squarciagola, convinto che col dente mi stesse togliendo anche il cervello. Ricordo che dall'ambulatorio m'hanno fatto passare in cucina dove la figlia del mio distinto carnefice, che gli faceva da Perpetua, essendo vedovo, cercava con mamma di calmarmi e di evitare che sputassi sangue addosso a tutto e tutti.
Fù allora che dichiarai guerra a tutti i dentisti, ignaro che un giorno sarei passato nelle loro fila.
Poco prima che l'impero austro-ungarico crollasse, a Sv.Joachimsthal arrivarono dei prigionieri. Non ricordo dove alloggiassero nè quanti fossero. Penso un centinaio o anche meno.
Ricordo invece molto bene che il rancio veniva loro preparato e distribuito al "Hotel Dresden", poco distante da casa nostra, dall'altra parte della strada. Vi si recavano tre volte al giorno, accompagnati da un graduato e due soldati semplici con tanto di fucile e baionetta innestata. Non erano molto marziali e marciando non cantavano. Questo era per me la dimostrazione più evidente che non erano tedeschi, più ancora del fatto che parlassero una lingua assolutamente incomprensibile. Penso che siano stati polacchi, ma non ne sono sicuro.
Un giorno mamma mi mandò a comperare una focaccia dal panettiere che aveva il negozio vicino alla chiesa. Era l'ora in cui ai prigionieri veniva distribuito, poco distante, il rancio serale. Ero appena entrato che due di loro fecero la loro apparizione. Evidentemente per comperare del pane. Uno dei due si rivolse a me con ampi sorrisi e quando mi vide acquistare la focaccia, additandola, mi disse un sacco di parole che ovviamente non riuscivo a capire. Ebbi comunque l'impressione che volesse che gliela regalassi, il che lì per lì non mi andava proprio di fare. Perciò, un pò perchè spaventato, un pò perchè contrariato, pagai in fretta il conto e tagliai la corda. Però strada facendo pensai d'aver avuto torto. Avrei dovuto dargliela. Povero prigioniero!
Così, arrivato a casa, raccontai la mia avventura alla mamma dicendole appunto che ero convinto che l'uomo voleva che gli dessi la focaccia perchè certamente aveva fame. Avere fame era l'argomento del giorno per tutti e se avevamo fame noi, figurarsi i "poveri prigionieri" per i quali nel paese tutti avevano molta compassione.
Se ora ci ripenso mi s'affaccia alla mente proprio questo particolare. Ci insegnavano ad odiare il nemico ma noi tutti ci sentivano pieni di comprensione per i "poveri prigionieri” quasi che, come tali, non fossero più "nemici".
Anche mamma mi disse che avevo avuto torto. Mi rimise in mano il pacchetto e mi invitò a portarlo al "poveraccio" che me l'aveva chiesto. Tornai nei pressi del negozio del panettiere ed al primo prigioniero che incontrai diedi così la mia focaccia, felice di poter fare un'opera di bene. Ricordo ancora la faccia sorpresa di quel giovanotto al quale non potevo spiegare il perchè del mio gesto.
Ricordo ancora che quella sera le strade erano tutte coperte di neve come sempre, poco illuminate, ma non ricordo se facesse freddo o no. Avevo il cuore gonfio di gioia anche se mi dispiaceva un pò di non aver dato la focaccia a chi me l'aveva chiesta ma ad un altro "poveraccio" come lui.
Allora non avrei mai pensato che molti anni dopo, nel 1943 prigioniero degli inglesi a Souk el Khemis, mentre accompagnavo all'ospedale coll'ambulanza uno dei miei uomini che stava molto male, un arabo sconosciuto, che gestiva un negozio di frutta e verdura, presso il quale la vettura s'era dovuto fermare per motivi di traffico mi si sarebbe avvicinato quasi furtivamente e senza preferire una sola parola, m'avrebbe regalato un bel melone che nessuno gli aveva chiesto.
Il movente di questo gesto non era certamente la compassione per noi prigionieri, sentimento che nel caso specifico giocava un ruolo del tutto marginale. Era semplicemente un atto di solidarietà a fondo decisamente politico. Sul posto tutti sapevano che gli inglesi non ci trattavano male. A trattare male i prigionieri erano semmai i francesi, i nostri "cugini" che non ci perdonavano di averli "pugnalati" in schiena.
Gli arabi s'attendevano la vittoria dell'Asse, ossia la sconfitta della Francia, la fine del protettorato e lo dicevano apertamente. Da qui la solidarietà nei nostri confronti.
Comunque sia, il melone ricevuto dall'arabo a Souk el Khemis, non poteva non ricordarmi, per associazione d'idee, la focaccia data al prigioniero a St.Joachimsthal.
Ricordo invece molto bene che il rancio veniva loro preparato e distribuito al "Hotel Dresden", poco distante da casa nostra, dall'altra parte della strada. Vi si recavano tre volte al giorno, accompagnati da un graduato e due soldati semplici con tanto di fucile e baionetta innestata. Non erano molto marziali e marciando non cantavano. Questo era per me la dimostrazione più evidente che non erano tedeschi, più ancora del fatto che parlassero una lingua assolutamente incomprensibile. Penso che siano stati polacchi, ma non ne sono sicuro.
Un giorno mamma mi mandò a comperare una focaccia dal panettiere che aveva il negozio vicino alla chiesa. Era l'ora in cui ai prigionieri veniva distribuito, poco distante, il rancio serale. Ero appena entrato che due di loro fecero la loro apparizione. Evidentemente per comperare del pane. Uno dei due si rivolse a me con ampi sorrisi e quando mi vide acquistare la focaccia, additandola, mi disse un sacco di parole che ovviamente non riuscivo a capire. Ebbi comunque l'impressione che volesse che gliela regalassi, il che lì per lì non mi andava proprio di fare. Perciò, un pò perchè spaventato, un pò perchè contrariato, pagai in fretta il conto e tagliai la corda. Però strada facendo pensai d'aver avuto torto. Avrei dovuto dargliela. Povero prigioniero!
Così, arrivato a casa, raccontai la mia avventura alla mamma dicendole appunto che ero convinto che l'uomo voleva che gli dessi la focaccia perchè certamente aveva fame. Avere fame era l'argomento del giorno per tutti e se avevamo fame noi, figurarsi i "poveri prigionieri" per i quali nel paese tutti avevano molta compassione.
Se ora ci ripenso mi s'affaccia alla mente proprio questo particolare. Ci insegnavano ad odiare il nemico ma noi tutti ci sentivano pieni di comprensione per i "poveri prigionieri” quasi che, come tali, non fossero più "nemici".
Anche mamma mi disse che avevo avuto torto. Mi rimise in mano il pacchetto e mi invitò a portarlo al "poveraccio" che me l'aveva chiesto. Tornai nei pressi del negozio del panettiere ed al primo prigioniero che incontrai diedi così la mia focaccia, felice di poter fare un'opera di bene. Ricordo ancora la faccia sorpresa di quel giovanotto al quale non potevo spiegare il perchè del mio gesto.
Ricordo ancora che quella sera le strade erano tutte coperte di neve come sempre, poco illuminate, ma non ricordo se facesse freddo o no. Avevo il cuore gonfio di gioia anche se mi dispiaceva un pò di non aver dato la focaccia a chi me l'aveva chiesta ma ad un altro "poveraccio" come lui.
Allora non avrei mai pensato che molti anni dopo, nel 1943 prigioniero degli inglesi a Souk el Khemis, mentre accompagnavo all'ospedale coll'ambulanza uno dei miei uomini che stava molto male, un arabo sconosciuto, che gestiva un negozio di frutta e verdura, presso il quale la vettura s'era dovuto fermare per motivi di traffico mi si sarebbe avvicinato quasi furtivamente e senza preferire una sola parola, m'avrebbe regalato un bel melone che nessuno gli aveva chiesto.
Il movente di questo gesto non era certamente la compassione per noi prigionieri, sentimento che nel caso specifico giocava un ruolo del tutto marginale. Era semplicemente un atto di solidarietà a fondo decisamente politico. Sul posto tutti sapevano che gli inglesi non ci trattavano male. A trattare male i prigionieri erano semmai i francesi, i nostri "cugini" che non ci perdonavano di averli "pugnalati" in schiena.
Gli arabi s'attendevano la vittoria dell'Asse, ossia la sconfitta della Francia, la fine del protettorato e lo dicevano apertamente. Da qui la solidarietà nei nostri confronti.
Comunque sia, il melone ricevuto dall'arabo a Souk el Khemis, non poteva non ricordarmi, per associazione d'idee, la focaccia data al prigioniero a St.Joachimsthal.
La guerra era finita da un pezzo ed i resti di quello che fù ......" avevano di già cominciati a rientrare in seno alle proprie famiglie. Un giorno uno di questi reduci portò a papà per ricordo, alcune cartucce da fucile ed uno strano proiettile, chiamato freccia che somigliava ad una lunga matita di ferro, da una parte appuntita e dall'altra provvista di quattro alette. Non conteneva esplosivo. Veniva lasciata cadere dagli aeroplani italiani sulle trincee austriache ed a dire del reduce, erano state molto temute. Penso si sia trattato d'un arma sperimentale subito ritirata perché escluso l’esemplare visto dare a papà non mi è stato mai più data la possibilità di vederne un altro, del genere. Papà accettò, ringraziando, "la freccia" ma non volle sapere niente delle cartucce.
Intanto tutti in paese aspettavano l'arrivo del nemico vincitore. Ricordo che fra noi ragazzi circolava la voce che "reduci" e"veterani" si sarebbero opposti all'occupazione della città.
Si parlava di mitragliatrici che sarebbero state collocate nei pressi del "Kurhaus" laddove la valle era più stretta ed altri aggiungevano che avrebbero anche fatto saltare le rotaie del treno. Secondo papà si trattava di chiacchiere senza senso perché ormai la guerra era finita e non c'era più niente da fare.
Infatti un bel giorno si diffuse la voce che i cechi erano arrivati ed avevano preso ufficialmente possesso della miniera ed il resto della città.
Per noi ragazzi è stato in un certo qual senso una grande delusione. Dopo tanto parlare ci aspettavamo di sentire per l'occasione qualche raffica di mitra, qualche scoppio di bomba o almeno qualche tafferuglio. Invece niente di tutto questo. Sono arrivati alla chetichella. Nessuno li ha visti. Quando abbiamo saputo che si sono serviti dalla palestra, accanto alla nostra casa, come magazzino per le loro "masserizie", Bruno ed io ci siamo sentiti in dovere di fare un sopraluogo. Come sempre, il portone d’ingresso all'edificio era aperto, cioè non chiuso a chiave, come pure la porta della sala. Nell'interno, un soldato non più molto giovane coi baffi alla Guglielmo, come quelli di zio Francesco ed il fucile in spalla, camminava lentamente su e giù fra colli, sacchi e casse che vi erano stati depositati alla rinfusa.
Quando ci vide entrare, si fermò per un istante, ci guardò con assoluta indifferenza, poi senza proferir parola, riprese a camminare su e giù per l'aula come se non esistessimo. Non aveva certo l'aria del feroce saladino ma bensì quella d'un buon padre di famiglia che della guerra ne aveva abbastanza e che in noi forse vedeva i suoi stessi rampolli. Ci lasciò saltare da un colle all'altro e quando ce ne andammo sembrava quasi ne fosse dispiaciuto.
In quanti fossero gli "occupanti" non l'ho mai saputo ed al di fuori dalla su menzionata sentinella, non ne ho visti altri. Credo non siano stati più di quattro gatti in tutto a che per di più non davano noia nessuno.
Avvenne così che il passaggio da un'amministrazione all'altra da una nazionalità all'altra, da un padrone all'altro fosse dal tutto "indolore".
A scuola i maestri rimasero quelli di prima e tutti continuarono a parlare tedesco come prima ed a disprezzare i cechi anche più di prima. Intendo naturalmente riferirmi solo al periodo in cui sono rimasto a St.Joachimsthal, cioè fino alla priamavara dal 1921, perchè di ciò che accadde dopo, non ho saputo più nulla.
Evidentemente i cechi non avevano fretta e non intendevano creare situazioni a loro sfavorevoli. Non ricordo che fra i personaggi che "contavano" ci siano stati cambiamenti. L'unico che ricordo se ne sia andato, è stato in sindaco, ma non perchè era tedesco ma semplicemente perchè non era "socialista". Infatti i minatori che fino al crollo dell'imparo sembravano disinteressarsi di politica, divennero dall’oggi al domani, tutti socialisti, mentre prima i "sozi" si contavano sulla dita di una sola mano. Il nuovo sindaco quindi non potava non essere che un rosso". Si chiamava Riedl ed era di professione maestro, anzi maestro di grado superiore (Fachlehrer). Era da tutti benvisto ed a casa mia si parlava di lui con molto rispetto.
È Ricordo ancora la festa del primo maggio 1919. Fù la prima volta che vidi sfilare i minatori in abiti borghesi con tanto di coccarda rossa all'occhiello. Non ricordo se ci fosse anche la banda, ma penso di sì perchè a St.Joachimsthal – ora Jàchymov - non era assolutamente concepibile una qualsiasi festa senza la "Bergkspelle". Il mio dubbio è, per essere preciso, se in quella circostanza fosse in borghese o in divisa. Comunque in testa al corteo la bandiera della banda non c'era e questo per ovvie ragioni. C'erano in compenso tante bandiere rosse ed un gruppo di ciclisti colle bici che avevano i raggi adorni di coccarde dello stesso colore.
Intanto tutti in paese aspettavano l'arrivo del nemico vincitore. Ricordo che fra noi ragazzi circolava la voce che "reduci" e"veterani" si sarebbero opposti all'occupazione della città.
Si parlava di mitragliatrici che sarebbero state collocate nei pressi del "Kurhaus" laddove la valle era più stretta ed altri aggiungevano che avrebbero anche fatto saltare le rotaie del treno. Secondo papà si trattava di chiacchiere senza senso perché ormai la guerra era finita e non c'era più niente da fare.
Infatti un bel giorno si diffuse la voce che i cechi erano arrivati ed avevano preso ufficialmente possesso della miniera ed il resto della città.
Per noi ragazzi è stato in un certo qual senso una grande delusione. Dopo tanto parlare ci aspettavamo di sentire per l'occasione qualche raffica di mitra, qualche scoppio di bomba o almeno qualche tafferuglio. Invece niente di tutto questo. Sono arrivati alla chetichella. Nessuno li ha visti. Quando abbiamo saputo che si sono serviti dalla palestra, accanto alla nostra casa, come magazzino per le loro "masserizie", Bruno ed io ci siamo sentiti in dovere di fare un sopraluogo. Come sempre, il portone d’ingresso all'edificio era aperto, cioè non chiuso a chiave, come pure la porta della sala. Nell'interno, un soldato non più molto giovane coi baffi alla Guglielmo, come quelli di zio Francesco ed il fucile in spalla, camminava lentamente su e giù fra colli, sacchi e casse che vi erano stati depositati alla rinfusa.
Quando ci vide entrare, si fermò per un istante, ci guardò con assoluta indifferenza, poi senza proferir parola, riprese a camminare su e giù per l'aula come se non esistessimo. Non aveva certo l'aria del feroce saladino ma bensì quella d'un buon padre di famiglia che della guerra ne aveva abbastanza e che in noi forse vedeva i suoi stessi rampolli. Ci lasciò saltare da un colle all'altro e quando ce ne andammo sembrava quasi ne fosse dispiaciuto.
In quanti fossero gli "occupanti" non l'ho mai saputo ed al di fuori dalla su menzionata sentinella, non ne ho visti altri. Credo non siano stati più di quattro gatti in tutto a che per di più non davano noia nessuno.
Avvenne così che il passaggio da un'amministrazione all'altra da una nazionalità all'altra, da un padrone all'altro fosse dal tutto "indolore".
A scuola i maestri rimasero quelli di prima e tutti continuarono a parlare tedesco come prima ed a disprezzare i cechi anche più di prima. Intendo naturalmente riferirmi solo al periodo in cui sono rimasto a St.Joachimsthal, cioè fino alla priamavara dal 1921, perchè di ciò che accadde dopo, non ho saputo più nulla.
Evidentemente i cechi non avevano fretta e non intendevano creare situazioni a loro sfavorevoli. Non ricordo che fra i personaggi che "contavano" ci siano stati cambiamenti. L'unico che ricordo se ne sia andato, è stato in sindaco, ma non perchè era tedesco ma semplicemente perchè non era "socialista". Infatti i minatori che fino al crollo dell'imparo sembravano disinteressarsi di politica, divennero dall’oggi al domani, tutti socialisti, mentre prima i "sozi" si contavano sulla dita di una sola mano. Il nuovo sindaco quindi non potava non essere che un rosso". Si chiamava Riedl ed era di professione maestro, anzi maestro di grado superiore (Fachlehrer). Era da tutti benvisto ed a casa mia si parlava di lui con molto rispetto.
È Ricordo ancora la festa del primo maggio 1919. Fù la prima volta che vidi sfilare i minatori in abiti borghesi con tanto di coccarda rossa all'occhiello. Non ricordo se ci fosse anche la banda, ma penso di sì perchè a St.Joachimsthal – ora Jàchymov - non era assolutamente concepibile una qualsiasi festa senza la "Bergkspelle". Il mio dubbio è, per essere preciso, se in quella circostanza fosse in borghese o in divisa. Comunque in testa al corteo la bandiera della banda non c'era e questo per ovvie ragioni. C'erano in compenso tante bandiere rosse ed un gruppo di ciclisti colle bici che avevano i raggi adorni di coccarde dello stesso colore.
La nostra partenza da "Sv.Jàchymov" avvenne in tempi diversi. Il primo a partire fù ovviamente papà. Doveva presentarsi alla nuova sede nei termini prescritti e provvedere alla nostra sistemazione. Lasciò Sv.Jàchymov ai primi di dicembre del 1920.
Ricordo che aveva commissionato nuovi mobili per la cucina che al momento della sua partenza non erano ancora pronti. Questo commissionamento fatto all'ultimo momento, era una trovata della mamma che, come tedesca, non vedeva di buon occhio il ritorno a Idria e perciò trovava tutte le scuse per tirarla per le lunghe. Papà invece non vedeva l'ora di poter tornare, più che a Idria, a Trieste, sua città natia e noi ragazzi condividevamo il suo entusiasmo, allora però, per solo spirito di ventura.
Nella seconda metà di maggio del 1921 toccò a noi due: Bruno e me, partire per l'Italia, la nostra nuova patria.
A portarci a Idria fù la signora Šotola, moglie del direttore della miniera. Jaroslav Šotola era d'origine ceca ed era nato a Pardubice. Aveva studiato a Vienna e fatto il suo tirocinio ("Bergeleve") proprio a Joachimsthal, molti anni prima che noi vi arrivassimo. La signora invece, Carla Ranzinger, vedova Thaler, era nata a Idria. Era una donna molto gentile e piena di vita. S'era dato il caso che dovesse in quel periodo recarsi in Cecoslovacchia per sistemare non so quali pratiche riguardanti un'eredità del marito e pertanto s'era gentilmente offerta a venirci a prelevare.
Il suo arrivo a Jàchymov fù molto gradito da mamma che ebbe così la possibilità di consegnarci nelle mani di "persona fidata". Inutile precisare che la signora parlava perfettamente il tedesco e come slovena riusciva benissimo a farsi capire dai cecoslovacchi.
Del viaggio da Jàchymov a Praga non ricordo più nulla. Ricordo invece la stazione ferroviaria della capitale, che era monumentale e la sala da pranzo che era enorme. Cosi almeno allora mi pareva. Soprattutto mi ricordo che, finito di mangiare, in attesa del treno che ci pareva non arrivasse mai, Bruno ed io demmo la caccia alle mosche che ci ronzavano intorno. Quelle che riuscimmo ad accalappiare vive, venivano sepolte nel sale o nel pepe della saliera, oppure rinchiuse nella bottiglia di birra, ormai vuota, che era rimasta sul tavolo. La signora, molto comprensiva, lasciò fare perchè evidentemente a lei premeva trattenerci al tavolo per evitare che ci perdessimo in mezzo alla gente che affollava la stazione.
Da Praga in poi il viaggio fù per me un vero incubo. Il treno era stipato di gente che gridava, piangeva, fumava e sputava senza riguardo per nessuno. Ad un dato momento arrivarono nello scompartimento anche soldati armati, credo finanzieri, che portarono lo scompiglio fra i passeggeri che avevano con se sacchi e grosse valige. ln uno degli scompartimenti attigui al nostro, al loro arrivo, scoppiò un vero putiferio. Urla, pianti, grida e rumori di colluttazione. La signora poi ci spiegò che i soldati che erano passati, avevano pescato dei contrabbandieri ed a uno di loro avevano tagliato colla baionetta il sacco di farina che aveva con sè, svuotandolo così del contenuto che era finito sul pavimento. Noi due non potevamo muoverci dal posto in cui ci trovavamo, in piedi, presso il finestrino, praticamente in castrati tra le gambe della gente seduta sulle panche. Per tutto il percorso nessuno mai si mosse per farci un pò di posto. Anzi avevo l'impressione che dopo tutto ci erano anche ostili perché parlavamo tedesco.
Quando cominciò a fare notte, mi ricordo molto bene, crollammo tutti e due per la stanchezza e ci addormentammo sul pavimento tra i piedi male odoranti dei passeggeri. Il giorno dopo le cose andarono un pò meglio. Riuscimmo ad avere un posto a sedere e verso sera finalmente arrivammo a Longatico, sul confine fra la Jugoslavia e l'Italia. Lì avremmo dovuto trovare papà colla carrozza per proseguire per Idria. Invece non trovammo nessuno. Non ricordo perchè. Ricordo solo che la signora Šotola non ne fece un dramma. Molto probabilmente l'eventualità dell'inconveniente era stato preventivato. Senza perdere tempo chiamò il primo giovanotto che si trovava nei pressi perchè ci aiutasse a portare le valige all'alberghetto poco distante dalla stazione. Ricordo che l'oste ci accolse molto rispettosamente. Nel locale si trovavano anche altri avventori, tutti uomini, che parlavano ad alta voce in una lingua che non capivo, fumavano come turchi e bevevano soprattutto vino. A Jàchymov nelle osterie tutti bevevano soltanto birra.
Prima ancora che finissimo di cenare, arrivò un giovanotto con una fisarmonica a bottoni, accolto dai presenti con molto calore. L'istrumento non mi era nuovo. A Jàchymov l'avevo spesso sentito suonare, per strada, da un vecchio mendicante, cieco e senza una gamba. Nei locali pubblici lì di norma suonavano la chitarra o la cetra (Zither). Ma se lo strumento mi era noto, la musica che ora sentii per la prima volta, era, almeno per e me, molto ma molto diversa. Mi sembrava maledettamente malinconica e questo del tutto indipendentemente dal tempo o ritmo delle canzoni.
La stessa impressione mi fecero successivamente anche le canzoni alpine e le villotte friulane.
Quando poi andammo a dormire sentii per la prima volta in vita mia cantare, sui prati circostanti, i grilli. A Jàchymov i grilli non erano di casa e quando arrivava la sera, sui campi scendeva colle tenebre, il silenzio più assoluto.
Chiudendo gli occhi, stanco e stordito, ebbi la strana sensazione d'essere entrato in un mondo nuovo e che dietro a me fosse calato un sipario invisibile ed impenetrabile sul mio passato senza ritorno.
Il giorno dopo arrivò papà da Idria in carrozza. Non ricordo se fosse solo o in compania dell'ing. Šotola e se quindi di carrozze fossero due o una sola. La gioia di poterlo riabbracciare dopo tanto tempo, fù che lì per lì non vedevo che lui e … la carrozza, che per me era un'altra novità.
A St.Joachimsthal la miniera non disponeva di mezzi di trasporto in proprio. Ci si spostava solo a piedi o col treno.
A Idria il treno non c'era e per ogni spostamento fuori città bisognava servirsi della carrozza. Come seppi poi, la miniera ne aveva in dotazione vari tipi e più di mezza dozzina di cavalli. Anzi, aveva anche di già un'autovettura, una "Saurer" con avviamento del motore a manovella e per il trasporto pesante due o tre camion, da tempo in "servizio permanente effettivo".
Comunque i Šotola rientrano nei miei ricordi solo più tardi quando papà ci portò in castello dove prendemmo provvisoriamente alloggio in un piccolo appartamentino ammobiliato, ma privo di cucina.
L'appartamento principale, composto da numerose stanze, oltre ai sevizi ed un vasto giardino con parco, era riservato per tradizione, al direttore della miniera dal quale eravamo quasi ogni giorno ospiti a pranzo e cena finchè non arrivarono mamma con Ughetto ed il mobilio.
Ciò avvenne ai primi di giugno del 1921;
I Šotola avevano quattro figli, ma solo le due figlie vivevano in famiglia. I due maschi: Milan, figlio di primo letto della signora e Jaroslav avevano optato per la Jugoslavia ed a Idría, almeno io, non li ho mai visti.
Che cosa facesse Milan, che allora poteva aver avuto almeno 28 anni, non lo so. Di lui in casa Šotola non sa ne parlava mai.
Invece Jaroslav veniva nominato di sovente. Era stato ufficiale nell'esercito ex a.u. ed ora continuava la carriera militare nell'esercito serbo. Doveva avere due o tre anni meno di Milan.
Lo ricordo soprattutto per il fatto che un giorno suo padre, avendo saputo che io ero un filatelico in erba, mi aveva mostrato la collezione che gli aveva regalato e che teneva gelosamente custodita in un album "Schaubeck" di colore rosso il quale a differenza di quello che io avevo ricevuto in regalo da Marcenka,non era solo più voluminoso, ma anche più moderno inquantochè consentiva di già l'inserimento di fogli d'aggiornamento, il che nel mio non era stato possibile;
Mira, la più grande delle figlie, che penso avesse allora 23 anni ed era molto bella e piena di vita come la madre, era ufficialmente fidanzata coll'ing. forestale Sapunzachi, italiano d'origine greca, che sposò pochi mesi dopo.
Boša, la più giovane, era perdutamente innamorata di uno studente della locale "Realschule" (Istituto tecnico superiore sloveno) e che aveva qualche anno meno di lei il che lo rendeva non gradito alla famiglia. Nel breve periodo che eravamo ospiti, Boša s'è sempre dimostrata molto premurosa nei nostri confronti. La sua disponibilità però non era proprio del tutto disinteressata. Infatti infallibilmente a mezzogiorno, guarda caso, ci s'imbatteva puntualmente col suo grande amore, il quale da perfetto gentiluomo non si limitava solo a salutarla, ma si sentiva anche in dovere d'accompagnarci fino alla scalinata che porta al castello. Lì, dopo un lungo confabulare che naturalmente non capivo una sola parola, Giulietta e Romeo si lasciavano con ampi sorrisi e tanto d'inchini da parte di lui, come richiesto dal galateo del tempo.
Prima ancora dell'arrivo di mamma, papà ci aveva procurato una maestra che ci iniziasse allo studio dell'italiano.
Si chiamava Tušar, non era nè vecchia nè giovane, di gradevole aspetto, molto gentile ma anche sufficientemente energica per saperci tenere a bada. Come tutte le persone colte del luogo, parlava il tedesco alla perfezione ed aveva di già imparato l'italiano talmente bene da poterlo insegnare senza difficoltà. Abitava al primo piano, sopra l'orologiaio Keber, nella casa che si trova di fronte al ponte sulla Nicova, ai piedi del castello.
Quando, dopo la venuta di mamma, andammo ad abitare sulla Sem1ija, che si trova in altura, dall'altra parte della conca, per andare a lezione dovevamo prima scendere a valle per poi praticamente attraversare tutta la città. Per coprire questa distanza non ci volevano di norma più di 10 - 15 minuti.
Dico di norma, perchè per tutto il periodo delle ostilità sorte tra noi ed i fratelli Jereb e compagni, le operazioni di guerra ci rubavano almeno altri dieci minuti se non di più nello scambio di insulti, pugni e sassate.
Campo di battaglia il pianoro che, a mezza costa, si apre sul percorso del trenino che dal pozzo "Vittorio Emanuele" trasportava il minerale alla "baserija" (per noi "aufbereitung"), dove veniva selezionato per essere successivamente trasportato con altro trenino alla "fabbrica" ove invece c'erano gli altiforni e relativi impianti di raffreddamento e centrifughe per il ricupero del mercurio.
Quel pianoro era per noi punto di passaggio obbligato e siccome proprio lì nei pressi abitavano i Jereb che ci aspettavano al varco, lo scontro era praticamente inevitabile. Le ostilità avevano avuto inizio un bel dì, poco dopo che ci eravamo insediati sulla Semlija, quando uno dei Jereb, che con altri suoi amici, i quali avevano cominciato a schernirci provocarci, rimasto solo, fù da noi pestato di santa ragione.
Questa situazione non durò peraltro molto a lungo. Non mi sono mai occupato nè preoccupato di conoscere i retroscena "diplomatici" dell'improvvisa cessazione del fuoco. Ritengo siano dovuti anzitutto alla signora Jereb la quale poco dopo i nostri primi scontri, appena ci vedeva arrivare, cominciò a richiamare ad alta voce i suoi rampolli e compagni, consentendoci cosi d'avere via libera. Anche mamma deve averci messo lo zampino perchè proprio allora le due donne avevano avuto occasione di conoscersi e siccome la signora Jereb conosceva molto bene il tedesco, è intuibile si valesse della nuova conoscenza per imporci l'armistizio. Infine non escludo che il reverendo, che più d'una volta avevamo incontrato nei pressi in ore diverse e che, pur non sapendo chi fosse, salutavamo sempre rispettosamente con "gelobt sei Jesus Christus" (sia lodato Gesù Cristo), ricevendo in risposta lo stesso saluto ed un ampio sorriso di compiacimento, sia stato a sua volta coinvolto nell'azione di pacificazione. Infatti più tardi siamo venuti a sapere che quel prete rubicondo e di statura imponente era nientemeno che lo zio dei nostri avversari.
L'impatto colla nuova realtà " idriana ", tutto sommato, fù per me e penso anche per Bruno, molto meno traumatico di quanto sarebbe potuto essere. Direi anzi, che di traumatico non aveva proprio nulla giacchè tutto si svolse a si sviluppo nell'ambito del previsto.
L'episodio Jereb non aveva alcuna importanza. Fù, sommai, per noi, tanto diversi uno dall'altro, solo motivo di sentirci fratelli una volta di più.
Infatti Idria non era che l'anticamera di quella realtà che dovevo ancora affrontare.
Passai "il Rubicone" solo a Gorizia quel pomeriggio d'ottobre 1921 quando il papà mi lasciò con Bruno nell'atrio dal collegio "Dante Alighieri", allora in viale XX Settembre, in condominio col ginnasio liceo "Vittorio Emanuele III°", dopo averci ripetuto per l'ennesima volta ciò che ci aveva di già raccomandato tanta di quelle volte in precedenza.
Fù allora che mi sentii per la prima volta in vita mia solo, veramente solo e diverso dagli altri pur avendo ancora accanto a me Bruno il quale però più che rattristato e rassegnato mi sembrava seccato e contrariato. Il solito ribelle !
Poi ci fù l'adunata e l'ingresso nello studio. Io venni fatto entrare in quello subito a sinistra del corridoio, Bruno nel successivo.
Così venni diviso anche da lui. Ciò, ovviamente, mi rese ancora più triste e malinconico e quando, poco dopo, le campane della chiesa di S.Ignazio suonarono l'Ave Maria, mi sembro che all'improvviso il mondo intero mi crollasse addosso.
A St.Joachimsthal i "sacri bronzi" erano stati fatti a pezzi sul campanile per essere tramutati in cannoni per la patria. Dopo anni avevo ancora nelle orecchie il lugubre suono del martello che le ridusse in frantumi. Era stata risparmiata solo la più piccola, quella che chiamava a raccolta la gente in caso di calamità e che dava l'addio a chi veniva portato all'ultima dimora. Qui invece era rimasta intatta qualcuna di più, almeno sui campanili della chiesa di s. Ignazio ed ora il loro suono cupo e solenne suggellava la morte che portavo nel cuore.
Difficile, anzi, impossibile tradurre in parole quello che allora mi passò per la mente.
Pensavo alla mamma rimasta con Ughetto a Idria, ai compagni di scuola che avevo lasciati a Jachymov e che non avrei mai più incontrati. Rivedevo in tumultuosa sequenza tutti i luoghi della "Heimat" che avevo perduta e prepotente mi s'affacciò alla mente un canto di Anton Günther del quale rammento ora solo il primo verso:..."Blümlein warum bist du so traurig am grünen Isonzostrand ?" (Fiorellino perchè sei così triste sulla verde sponda dell'Isonzo?)
Chi più triste di me sulla verde sponda dell'Isonzo in quel momento?
Anton Günther, padre di Ervin, mio compagno di classe nella prima "Bürgerschule" nella quale papà m'aveva iscritto per l'anno 1920 - 1921, invece di mandarmi al ginnasio di Eger, data l'imminenza dal nostro trasferimento, viveva a Gottesgab che si trovava pochi km. più a nord di Jàchymov, proprio al confine colla Sassonia. Aveva durante la guerra combattuto sull'Isonzo e veniva da tutti ufficiamente riconosciuto come "Volksdichter" - poeta popolare -. Oggi lo si chiamerebbe cantautore a tempo pieno. Quando si esibiva in pubblico, si accompagnava sempre colla chitarra.
Pare che Ervin abbia seguito l'esempio del padre ed espulso dalla Cecoslovacchia, come tutti i sudeti di ceppo tedesco, si sia sistemato nella Germania orientale ove si sarebbe guadagnato la vita cantando. Così almeno m'è stato detto a Gottesgab quando vi sono tornato nel 1961.
Ricordo che aveva commissionato nuovi mobili per la cucina che al momento della sua partenza non erano ancora pronti. Questo commissionamento fatto all'ultimo momento, era una trovata della mamma che, come tedesca, non vedeva di buon occhio il ritorno a Idria e perciò trovava tutte le scuse per tirarla per le lunghe. Papà invece non vedeva l'ora di poter tornare, più che a Idria, a Trieste, sua città natia e noi ragazzi condividevamo il suo entusiasmo, allora però, per solo spirito di ventura.
Nella seconda metà di maggio del 1921 toccò a noi due: Bruno e me, partire per l'Italia, la nostra nuova patria.
A portarci a Idria fù la signora Šotola, moglie del direttore della miniera. Jaroslav Šotola era d'origine ceca ed era nato a Pardubice. Aveva studiato a Vienna e fatto il suo tirocinio ("Bergeleve") proprio a Joachimsthal, molti anni prima che noi vi arrivassimo. La signora invece, Carla Ranzinger, vedova Thaler, era nata a Idria. Era una donna molto gentile e piena di vita. S'era dato il caso che dovesse in quel periodo recarsi in Cecoslovacchia per sistemare non so quali pratiche riguardanti un'eredità del marito e pertanto s'era gentilmente offerta a venirci a prelevare.
Il suo arrivo a Jàchymov fù molto gradito da mamma che ebbe così la possibilità di consegnarci nelle mani di "persona fidata". Inutile precisare che la signora parlava perfettamente il tedesco e come slovena riusciva benissimo a farsi capire dai cecoslovacchi.
Del viaggio da Jàchymov a Praga non ricordo più nulla. Ricordo invece la stazione ferroviaria della capitale, che era monumentale e la sala da pranzo che era enorme. Cosi almeno allora mi pareva. Soprattutto mi ricordo che, finito di mangiare, in attesa del treno che ci pareva non arrivasse mai, Bruno ed io demmo la caccia alle mosche che ci ronzavano intorno. Quelle che riuscimmo ad accalappiare vive, venivano sepolte nel sale o nel pepe della saliera, oppure rinchiuse nella bottiglia di birra, ormai vuota, che era rimasta sul tavolo. La signora, molto comprensiva, lasciò fare perchè evidentemente a lei premeva trattenerci al tavolo per evitare che ci perdessimo in mezzo alla gente che affollava la stazione.
Da Praga in poi il viaggio fù per me un vero incubo. Il treno era stipato di gente che gridava, piangeva, fumava e sputava senza riguardo per nessuno. Ad un dato momento arrivarono nello scompartimento anche soldati armati, credo finanzieri, che portarono lo scompiglio fra i passeggeri che avevano con se sacchi e grosse valige. ln uno degli scompartimenti attigui al nostro, al loro arrivo, scoppiò un vero putiferio. Urla, pianti, grida e rumori di colluttazione. La signora poi ci spiegò che i soldati che erano passati, avevano pescato dei contrabbandieri ed a uno di loro avevano tagliato colla baionetta il sacco di farina che aveva con sè, svuotandolo così del contenuto che era finito sul pavimento. Noi due non potevamo muoverci dal posto in cui ci trovavamo, in piedi, presso il finestrino, praticamente in castrati tra le gambe della gente seduta sulle panche. Per tutto il percorso nessuno mai si mosse per farci un pò di posto. Anzi avevo l'impressione che dopo tutto ci erano anche ostili perché parlavamo tedesco.
Quando cominciò a fare notte, mi ricordo molto bene, crollammo tutti e due per la stanchezza e ci addormentammo sul pavimento tra i piedi male odoranti dei passeggeri. Il giorno dopo le cose andarono un pò meglio. Riuscimmo ad avere un posto a sedere e verso sera finalmente arrivammo a Longatico, sul confine fra la Jugoslavia e l'Italia. Lì avremmo dovuto trovare papà colla carrozza per proseguire per Idria. Invece non trovammo nessuno. Non ricordo perchè. Ricordo solo che la signora Šotola non ne fece un dramma. Molto probabilmente l'eventualità dell'inconveniente era stato preventivato. Senza perdere tempo chiamò il primo giovanotto che si trovava nei pressi perchè ci aiutasse a portare le valige all'alberghetto poco distante dalla stazione. Ricordo che l'oste ci accolse molto rispettosamente. Nel locale si trovavano anche altri avventori, tutti uomini, che parlavano ad alta voce in una lingua che non capivo, fumavano come turchi e bevevano soprattutto vino. A Jàchymov nelle osterie tutti bevevano soltanto birra.
Prima ancora che finissimo di cenare, arrivò un giovanotto con una fisarmonica a bottoni, accolto dai presenti con molto calore. L'istrumento non mi era nuovo. A Jàchymov l'avevo spesso sentito suonare, per strada, da un vecchio mendicante, cieco e senza una gamba. Nei locali pubblici lì di norma suonavano la chitarra o la cetra (Zither). Ma se lo strumento mi era noto, la musica che ora sentii per la prima volta, era, almeno per e me, molto ma molto diversa. Mi sembrava maledettamente malinconica e questo del tutto indipendentemente dal tempo o ritmo delle canzoni.
La stessa impressione mi fecero successivamente anche le canzoni alpine e le villotte friulane.
Quando poi andammo a dormire sentii per la prima volta in vita mia cantare, sui prati circostanti, i grilli. A Jàchymov i grilli non erano di casa e quando arrivava la sera, sui campi scendeva colle tenebre, il silenzio più assoluto.
Chiudendo gli occhi, stanco e stordito, ebbi la strana sensazione d'essere entrato in un mondo nuovo e che dietro a me fosse calato un sipario invisibile ed impenetrabile sul mio passato senza ritorno.
Il giorno dopo arrivò papà da Idria in carrozza. Non ricordo se fosse solo o in compania dell'ing. Šotola e se quindi di carrozze fossero due o una sola. La gioia di poterlo riabbracciare dopo tanto tempo, fù che lì per lì non vedevo che lui e … la carrozza, che per me era un'altra novità.
A St.Joachimsthal la miniera non disponeva di mezzi di trasporto in proprio. Ci si spostava solo a piedi o col treno.
A Idria il treno non c'era e per ogni spostamento fuori città bisognava servirsi della carrozza. Come seppi poi, la miniera ne aveva in dotazione vari tipi e più di mezza dozzina di cavalli. Anzi, aveva anche di già un'autovettura, una "Saurer" con avviamento del motore a manovella e per il trasporto pesante due o tre camion, da tempo in "servizio permanente effettivo".
Comunque i Šotola rientrano nei miei ricordi solo più tardi quando papà ci portò in castello dove prendemmo provvisoriamente alloggio in un piccolo appartamentino ammobiliato, ma privo di cucina.
L'appartamento principale, composto da numerose stanze, oltre ai sevizi ed un vasto giardino con parco, era riservato per tradizione, al direttore della miniera dal quale eravamo quasi ogni giorno ospiti a pranzo e cena finchè non arrivarono mamma con Ughetto ed il mobilio.
Ciò avvenne ai primi di giugno del 1921;
I Šotola avevano quattro figli, ma solo le due figlie vivevano in famiglia. I due maschi: Milan, figlio di primo letto della signora e Jaroslav avevano optato per la Jugoslavia ed a Idría, almeno io, non li ho mai visti.
Che cosa facesse Milan, che allora poteva aver avuto almeno 28 anni, non lo so. Di lui in casa Šotola non sa ne parlava mai.
Invece Jaroslav veniva nominato di sovente. Era stato ufficiale nell'esercito ex a.u. ed ora continuava la carriera militare nell'esercito serbo. Doveva avere due o tre anni meno di Milan.
Lo ricordo soprattutto per il fatto che un giorno suo padre, avendo saputo che io ero un filatelico in erba, mi aveva mostrato la collezione che gli aveva regalato e che teneva gelosamente custodita in un album "Schaubeck" di colore rosso il quale a differenza di quello che io avevo ricevuto in regalo da Marcenka,non era solo più voluminoso, ma anche più moderno inquantochè consentiva di già l'inserimento di fogli d'aggiornamento, il che nel mio non era stato possibile;
Mira, la più grande delle figlie, che penso avesse allora 23 anni ed era molto bella e piena di vita come la madre, era ufficialmente fidanzata coll'ing. forestale Sapunzachi, italiano d'origine greca, che sposò pochi mesi dopo.
Boša, la più giovane, era perdutamente innamorata di uno studente della locale "Realschule" (Istituto tecnico superiore sloveno) e che aveva qualche anno meno di lei il che lo rendeva non gradito alla famiglia. Nel breve periodo che eravamo ospiti, Boša s'è sempre dimostrata molto premurosa nei nostri confronti. La sua disponibilità però non era proprio del tutto disinteressata. Infatti infallibilmente a mezzogiorno, guarda caso, ci s'imbatteva puntualmente col suo grande amore, il quale da perfetto gentiluomo non si limitava solo a salutarla, ma si sentiva anche in dovere d'accompagnarci fino alla scalinata che porta al castello. Lì, dopo un lungo confabulare che naturalmente non capivo una sola parola, Giulietta e Romeo si lasciavano con ampi sorrisi e tanto d'inchini da parte di lui, come richiesto dal galateo del tempo.
Prima ancora dell'arrivo di mamma, papà ci aveva procurato una maestra che ci iniziasse allo studio dell'italiano.
Si chiamava Tušar, non era nè vecchia nè giovane, di gradevole aspetto, molto gentile ma anche sufficientemente energica per saperci tenere a bada. Come tutte le persone colte del luogo, parlava il tedesco alla perfezione ed aveva di già imparato l'italiano talmente bene da poterlo insegnare senza difficoltà. Abitava al primo piano, sopra l'orologiaio Keber, nella casa che si trova di fronte al ponte sulla Nicova, ai piedi del castello.
Quando, dopo la venuta di mamma, andammo ad abitare sulla Sem1ija, che si trova in altura, dall'altra parte della conca, per andare a lezione dovevamo prima scendere a valle per poi praticamente attraversare tutta la città. Per coprire questa distanza non ci volevano di norma più di 10 - 15 minuti.
Dico di norma, perchè per tutto il periodo delle ostilità sorte tra noi ed i fratelli Jereb e compagni, le operazioni di guerra ci rubavano almeno altri dieci minuti se non di più nello scambio di insulti, pugni e sassate.
Campo di battaglia il pianoro che, a mezza costa, si apre sul percorso del trenino che dal pozzo "Vittorio Emanuele" trasportava il minerale alla "baserija" (per noi "aufbereitung"), dove veniva selezionato per essere successivamente trasportato con altro trenino alla "fabbrica" ove invece c'erano gli altiforni e relativi impianti di raffreddamento e centrifughe per il ricupero del mercurio.
Quel pianoro era per noi punto di passaggio obbligato e siccome proprio lì nei pressi abitavano i Jereb che ci aspettavano al varco, lo scontro era praticamente inevitabile. Le ostilità avevano avuto inizio un bel dì, poco dopo che ci eravamo insediati sulla Semlija, quando uno dei Jereb, che con altri suoi amici, i quali avevano cominciato a schernirci provocarci, rimasto solo, fù da noi pestato di santa ragione.
Questa situazione non durò peraltro molto a lungo. Non mi sono mai occupato nè preoccupato di conoscere i retroscena "diplomatici" dell'improvvisa cessazione del fuoco. Ritengo siano dovuti anzitutto alla signora Jereb la quale poco dopo i nostri primi scontri, appena ci vedeva arrivare, cominciò a richiamare ad alta voce i suoi rampolli e compagni, consentendoci cosi d'avere via libera. Anche mamma deve averci messo lo zampino perchè proprio allora le due donne avevano avuto occasione di conoscersi e siccome la signora Jereb conosceva molto bene il tedesco, è intuibile si valesse della nuova conoscenza per imporci l'armistizio. Infine non escludo che il reverendo, che più d'una volta avevamo incontrato nei pressi in ore diverse e che, pur non sapendo chi fosse, salutavamo sempre rispettosamente con "gelobt sei Jesus Christus" (sia lodato Gesù Cristo), ricevendo in risposta lo stesso saluto ed un ampio sorriso di compiacimento, sia stato a sua volta coinvolto nell'azione di pacificazione. Infatti più tardi siamo venuti a sapere che quel prete rubicondo e di statura imponente era nientemeno che lo zio dei nostri avversari.
L'impatto colla nuova realtà " idriana ", tutto sommato, fù per me e penso anche per Bruno, molto meno traumatico di quanto sarebbe potuto essere. Direi anzi, che di traumatico non aveva proprio nulla giacchè tutto si svolse a si sviluppo nell'ambito del previsto.
L'episodio Jereb non aveva alcuna importanza. Fù, sommai, per noi, tanto diversi uno dall'altro, solo motivo di sentirci fratelli una volta di più.
Infatti Idria non era che l'anticamera di quella realtà che dovevo ancora affrontare.
Passai "il Rubicone" solo a Gorizia quel pomeriggio d'ottobre 1921 quando il papà mi lasciò con Bruno nell'atrio dal collegio "Dante Alighieri", allora in viale XX Settembre, in condominio col ginnasio liceo "Vittorio Emanuele III°", dopo averci ripetuto per l'ennesima volta ciò che ci aveva di già raccomandato tanta di quelle volte in precedenza.
Fù allora che mi sentii per la prima volta in vita mia solo, veramente solo e diverso dagli altri pur avendo ancora accanto a me Bruno il quale però più che rattristato e rassegnato mi sembrava seccato e contrariato. Il solito ribelle !
Poi ci fù l'adunata e l'ingresso nello studio. Io venni fatto entrare in quello subito a sinistra del corridoio, Bruno nel successivo.
Così venni diviso anche da lui. Ciò, ovviamente, mi rese ancora più triste e malinconico e quando, poco dopo, le campane della chiesa di S.Ignazio suonarono l'Ave Maria, mi sembro che all'improvviso il mondo intero mi crollasse addosso.
A St.Joachimsthal i "sacri bronzi" erano stati fatti a pezzi sul campanile per essere tramutati in cannoni per la patria. Dopo anni avevo ancora nelle orecchie il lugubre suono del martello che le ridusse in frantumi. Era stata risparmiata solo la più piccola, quella che chiamava a raccolta la gente in caso di calamità e che dava l'addio a chi veniva portato all'ultima dimora. Qui invece era rimasta intatta qualcuna di più, almeno sui campanili della chiesa di s. Ignazio ed ora il loro suono cupo e solenne suggellava la morte che portavo nel cuore.
Difficile, anzi, impossibile tradurre in parole quello che allora mi passò per la mente.
Pensavo alla mamma rimasta con Ughetto a Idria, ai compagni di scuola che avevo lasciati a Jachymov e che non avrei mai più incontrati. Rivedevo in tumultuosa sequenza tutti i luoghi della "Heimat" che avevo perduta e prepotente mi s'affacciò alla mente un canto di Anton Günther del quale rammento ora solo il primo verso:..."Blümlein warum bist du so traurig am grünen Isonzostrand ?" (Fiorellino perchè sei così triste sulla verde sponda dell'Isonzo?)
Chi più triste di me sulla verde sponda dell'Isonzo in quel momento?
Anton Günther, padre di Ervin, mio compagno di classe nella prima "Bürgerschule" nella quale papà m'aveva iscritto per l'anno 1920 - 1921, invece di mandarmi al ginnasio di Eger, data l'imminenza dal nostro trasferimento, viveva a Gottesgab che si trovava pochi km. più a nord di Jàchymov, proprio al confine colla Sassonia. Aveva durante la guerra combattuto sull'Isonzo e veniva da tutti ufficiamente riconosciuto come "Volksdichter" - poeta popolare -. Oggi lo si chiamerebbe cantautore a tempo pieno. Quando si esibiva in pubblico, si accompagnava sempre colla chitarra.
Pare che Ervin abbia seguito l'esempio del padre ed espulso dalla Cecoslovacchia, come tutti i sudeti di ceppo tedesco, si sia sistemato nella Germania orientale ove si sarebbe guadagnato la vita cantando. Così almeno m'è stato detto a Gottesgab quando vi sono tornato nel 1961.
Fuori dalla finestra vedevo il parco Coronini anch'esso immerso nel verde ed accanto a me c'era Licen Francesco, il mio nuovo compagno di banco che fino allora non m'aveva ancora rivolto una sola parola. Nè io a lui. Ma tanto non m'avrebbe capito. Invece Licen il tedesco lo masticava abbastanza bene ed ad un dato momento mi chiese sotto voce se sapevo giuocare di scacchi, che lui la scacchiera l'aveva sotto il banco.
Gli risposi di no ma come d'incanto mi sentii di nuovo sollevato. Non ero più solo nè diverso degli altri. Almeno lì per lì!
Quando però nei giorni successivi, o in collegio o a scuola qualcuno ebbe a darmi, con fare sprezzante, dell'austriaco, del gnocco o peggio del "bastardo", volente nolente, l'idea dell'essere diverso, non poteva non ritornarmi alla mente e turbarmi profondamente.
Come già detto, il collegio convitto "Dante Alighieri" ed il ginnasio liceo "Vittorio Emanuele III", si dividevano, per non dire si "contendevano", allora nell'anno di grazia 192l-22, le aule del palazzo di viale XX settembre, come meglio potevano.
Al pianoterra, nell'ala di destra, c'erano le cucine, i refettori ed i servizi (latrine per il collegio).
Al centro la Direzione, il guardarobe ed un vano ad uso sgabuzzino nel quale depositavamo ogni mattino i nostri libri e quaderni che quel giorno non ci servivano per la scuola, inquantochè lo studio, ossia le due aula addibite ad hoc, venivano occupate al mattino dal ginnasio.
I vani siti nell'ala sinistra erano tutti occupati dal liceo e vi erano sistemati anche il laboratorio di fisica ed il museo di storia naturale e di mineralogia. Solo un'aula, lo studio dei "grandi", era in condominio.
Il primo piano era tutto a disposizione del ginnasio liceo, compresa l'aula magna, sala dei professori e l'abitazione del preside Caldini, detto "Leon Gambetta".
Il secondo piano invece serviva unicamente al collegio che vi aveva sistemati tutti i dormitori, la stanza privata del direttore ed i locali per il personale fisso. Ovviamente c'erano anche i servizi, ossia i gabinetti di decenza ed i lavandini, mentre mancavano del tutto vasche da bagno e docce.
Per ovviare a tale inconveniente ci portavano una volta alla settimana e precisamente di sabato a fare la doccia nella vecchia caserma degli alpini cha si trovava in Piazza della Vittoria, laddove ora fa bella mostra di sè il palazzo dell'I.N.P.S
Se all'inizio questa "variante" poteva anche essere divertente, man mano che si avvicinava l'inverno però, quella caserma, priva di riscaldamento, con "pantegane" dappertutto e che puzzava di creosoto come fosse un unico cesso, finì col diventare per tutti un vero incubo, soprattutto quando, causa il freddo, più o meno tutti, cominciammo ad avere i geloni che la signora Bernardis cercava, inutilmente, di curarci con generose pennellazioni di tintura di iodio.
Ricordo anche che, sempre durante l'inverno 1921 - 1922, si gelarono più d'una volta i tubi dell'acqua e che per lavarci fummo allora mandati, appena alzati dal letto, nella valletta del corno che quella volta non era ancora coperto ed aveva anche, almeno apparentemente, le acque abbastanza limpide.
Era invece coperto qua e là da sottili strati di ghiaccio che bisognava rompere se volevamo "bagnarci la faccia", perchè a "lavarsela" non ci si pensava nemmeno di già in partenza. Bastava la mossa.
Dì "inconvenienti" al "Dante" cen’erano molti. Quello che pero m'angosciava di più era il vitto, qualitativamente accettabile, ma quantitativamente del tutto insufficente.
In quanto alla qualità però, voglio precisare che, se lo struccolo, che appariva sulla mensa ogni tanto, era migliore persino di quello che faceva la mamma, c'erano tre piatti per me fino ad allora del tutto sconosciuti e che non mi piacevano mica tanto, anzi direi per niente:- la polenta - le rape – la jota. Però, dato l'appetito, li facevo fuori ugualmente senza tante storie. 0ggi, come piatti tradizionali della cucina friulana, li trovo persino gustosi. Questione d'abitudine !
I pacchi che ci arrivavano da casa, ogni volta cha qualcuno vaniva a trovarci, non bastavano a risolvere il problema e neppure i pochi soldini che papà o mammaci davano per poter comperara i "caramei" di "Lavaroni", che col suo carretto ci aspettava davanti al ginnasio durante il riposo. "Caramei, Caramei per i putei che ga schei".
Insomma al "Dante" si mangiava poco e ci si alzava dal tavolo con più fame di prima.
Perciò papà, l'anno successivo ci mandò al "S.Luigi" dove perlomeno ci davano la minestra a volontà. In quanto al resto però anche lì non si sprecavano davvero. In compenso ci portavano in chiesa due ed anche tre volte al giorno.
Vi rimanemmo per tre anni di di saguito per tornare al "Dante", che nel frattempo s'era trasferito in via Orzoni, per altri due.
++++++++++++++
Nel dicembre del 1924, il natale dovemmo passare in collegio dai Salesiani. Mamma era di nuovo in "stato interessante". Lo sapevamo da tempo e tutti le pronosticavano un altro maschietto.
Ma solo per scaramanzia perchè tutti speravamo sinceramente che il buon Dio avrebbe finalmente esaudito le sue preghiere d'aver una bambina.
Il dover rinunciare al Natale in casa non ci andava molto a genio, ma quando arrivò la notizia che il giorno 20 dicembre era nata una sorallina, il dispiacere per le mancate vacanze fù subito accantonato dalla gioia che prese anche noi due. Credo almeno che anche Bruno abbia provato quello che allora ho provato io pensando alla felicità della mamma che finalmente ha avuta la sua "Mädi" tanto morbosamente desiderata.
"Mädi"- poi divenuto "Medi" - é il vezzaggiativo di "Mädchan" (bambina). Il nome di Elvira era stato tratto dal calendario a caso e per lunghi anni valeva solo per l'anagrafe.
Mamma non voleva far torto a nessuna dalla sua sorelle nè a quella di papà e così ha preferito, in piano accordo col genitore, ignorare la tradizione.
+++++++++++++
Dopo aver passato il "Rubiconê" quel pomeriggio dell'ottobre 1921, entrando nell'atrio del collegio "Dante Alighieri", il giorno dopo, entrando nella I°B del ginnasio liceo "Vittorio Emanuele III", sito come già detto, nello stesso edificio, sia per me che per Bruno, assegnato alla parallela I°A, - incipit vita nova nel vero senso della parola.
Lui ebbe per capoclasse il prof. Savoi, io nella stessa funzione, il prof. Ervino Pocar, che pochi mesi più tardi divenne pure direttore del collegio.
Entrambi eravamo stati iscritti come "alunni straordinari", ossia "ascoltanti", il che voleva dire che durante tutto l’anno scolastico, il nostro rendimento non veniva ufficialmente giudicato. In compenso alla fine dell'anno dovevamo sostenere un esame su tutte le materie d'insegnamento.
Io per conto mio ce la misi tutta, sgobbando come un "mus". - Volli, sempre volli, fortissimamente volli - ed il 28 sett. 1922 portai a casa, intimamente soddisfatto, l'agognata promozione alla “seconda ginnasio".
Bruno invece non ce la fece. Non per mancanza d'intelligenza, che non gli difettava davvero, ma per mancanza di forza di volontà e perseveranza.
Gli risposi di no ma come d'incanto mi sentii di nuovo sollevato. Non ero più solo nè diverso degli altri. Almeno lì per lì!
Quando però nei giorni successivi, o in collegio o a scuola qualcuno ebbe a darmi, con fare sprezzante, dell'austriaco, del gnocco o peggio del "bastardo", volente nolente, l'idea dell'essere diverso, non poteva non ritornarmi alla mente e turbarmi profondamente.
Come già detto, il collegio convitto "Dante Alighieri" ed il ginnasio liceo "Vittorio Emanuele III", si dividevano, per non dire si "contendevano", allora nell'anno di grazia 192l-22, le aule del palazzo di viale XX settembre, come meglio potevano.
Al pianoterra, nell'ala di destra, c'erano le cucine, i refettori ed i servizi (latrine per il collegio).
Al centro la Direzione, il guardarobe ed un vano ad uso sgabuzzino nel quale depositavamo ogni mattino i nostri libri e quaderni che quel giorno non ci servivano per la scuola, inquantochè lo studio, ossia le due aula addibite ad hoc, venivano occupate al mattino dal ginnasio.
I vani siti nell'ala sinistra erano tutti occupati dal liceo e vi erano sistemati anche il laboratorio di fisica ed il museo di storia naturale e di mineralogia. Solo un'aula, lo studio dei "grandi", era in condominio.
Il primo piano era tutto a disposizione del ginnasio liceo, compresa l'aula magna, sala dei professori e l'abitazione del preside Caldini, detto "Leon Gambetta".
Il secondo piano invece serviva unicamente al collegio che vi aveva sistemati tutti i dormitori, la stanza privata del direttore ed i locali per il personale fisso. Ovviamente c'erano anche i servizi, ossia i gabinetti di decenza ed i lavandini, mentre mancavano del tutto vasche da bagno e docce.
Per ovviare a tale inconveniente ci portavano una volta alla settimana e precisamente di sabato a fare la doccia nella vecchia caserma degli alpini cha si trovava in Piazza della Vittoria, laddove ora fa bella mostra di sè il palazzo dell'I.N.P.S
Se all'inizio questa "variante" poteva anche essere divertente, man mano che si avvicinava l'inverno però, quella caserma, priva di riscaldamento, con "pantegane" dappertutto e che puzzava di creosoto come fosse un unico cesso, finì col diventare per tutti un vero incubo, soprattutto quando, causa il freddo, più o meno tutti, cominciammo ad avere i geloni che la signora Bernardis cercava, inutilmente, di curarci con generose pennellazioni di tintura di iodio.
Ricordo anche che, sempre durante l'inverno 1921 - 1922, si gelarono più d'una volta i tubi dell'acqua e che per lavarci fummo allora mandati, appena alzati dal letto, nella valletta del corno che quella volta non era ancora coperto ed aveva anche, almeno apparentemente, le acque abbastanza limpide.
Era invece coperto qua e là da sottili strati di ghiaccio che bisognava rompere se volevamo "bagnarci la faccia", perchè a "lavarsela" non ci si pensava nemmeno di già in partenza. Bastava la mossa.
Dì "inconvenienti" al "Dante" cen’erano molti. Quello che pero m'angosciava di più era il vitto, qualitativamente accettabile, ma quantitativamente del tutto insufficente.
In quanto alla qualità però, voglio precisare che, se lo struccolo, che appariva sulla mensa ogni tanto, era migliore persino di quello che faceva la mamma, c'erano tre piatti per me fino ad allora del tutto sconosciuti e che non mi piacevano mica tanto, anzi direi per niente:- la polenta - le rape – la jota. Però, dato l'appetito, li facevo fuori ugualmente senza tante storie. 0ggi, come piatti tradizionali della cucina friulana, li trovo persino gustosi. Questione d'abitudine !
I pacchi che ci arrivavano da casa, ogni volta cha qualcuno vaniva a trovarci, non bastavano a risolvere il problema e neppure i pochi soldini che papà o mammaci davano per poter comperara i "caramei" di "Lavaroni", che col suo carretto ci aspettava davanti al ginnasio durante il riposo. "Caramei, Caramei per i putei che ga schei".
Insomma al "Dante" si mangiava poco e ci si alzava dal tavolo con più fame di prima.
Perciò papà, l'anno successivo ci mandò al "S.Luigi" dove perlomeno ci davano la minestra a volontà. In quanto al resto però anche lì non si sprecavano davvero. In compenso ci portavano in chiesa due ed anche tre volte al giorno.
Vi rimanemmo per tre anni di di saguito per tornare al "Dante", che nel frattempo s'era trasferito in via Orzoni, per altri due.
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Nel dicembre del 1924, il natale dovemmo passare in collegio dai Salesiani. Mamma era di nuovo in "stato interessante". Lo sapevamo da tempo e tutti le pronosticavano un altro maschietto.
Ma solo per scaramanzia perchè tutti speravamo sinceramente che il buon Dio avrebbe finalmente esaudito le sue preghiere d'aver una bambina.
Il dover rinunciare al Natale in casa non ci andava molto a genio, ma quando arrivò la notizia che il giorno 20 dicembre era nata una sorallina, il dispiacere per le mancate vacanze fù subito accantonato dalla gioia che prese anche noi due. Credo almeno che anche Bruno abbia provato quello che allora ho provato io pensando alla felicità della mamma che finalmente ha avuta la sua "Mädi" tanto morbosamente desiderata.
"Mädi"- poi divenuto "Medi" - é il vezzaggiativo di "Mädchan" (bambina). Il nome di Elvira era stato tratto dal calendario a caso e per lunghi anni valeva solo per l'anagrafe.
Mamma non voleva far torto a nessuna dalla sua sorelle nè a quella di papà e così ha preferito, in piano accordo col genitore, ignorare la tradizione.
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Dopo aver passato il "Rubiconê" quel pomeriggio dell'ottobre 1921, entrando nell'atrio del collegio "Dante Alighieri", il giorno dopo, entrando nella I°B del ginnasio liceo "Vittorio Emanuele III", sito come già detto, nello stesso edificio, sia per me che per Bruno, assegnato alla parallela I°A, - incipit vita nova nel vero senso della parola.
Lui ebbe per capoclasse il prof. Savoi, io nella stessa funzione, il prof. Ervino Pocar, che pochi mesi più tardi divenne pure direttore del collegio.
Entrambi eravamo stati iscritti come "alunni straordinari", ossia "ascoltanti", il che voleva dire che durante tutto l’anno scolastico, il nostro rendimento non veniva ufficialmente giudicato. In compenso alla fine dell'anno dovevamo sostenere un esame su tutte le materie d'insegnamento.
Io per conto mio ce la misi tutta, sgobbando come un "mus". - Volli, sempre volli, fortissimamente volli - ed il 28 sett. 1922 portai a casa, intimamente soddisfatto, l'agognata promozione alla “seconda ginnasio".
Bruno invece non ce la fece. Non per mancanza d'intelligenza, che non gli difettava davvero, ma per mancanza di forza di volontà e perseveranza.